C’è una sala gremita, si paga un
biglietto d’ingresso e in più è giovedì. E piove. Per giunta gli attori non
hanno neanche studiato a dovere: hanno ancora il copione in mano!
Un
piccolo, anonimo miracolo italiano? No. È il teatro
contemporaneo al Teatro Valle Occupato. È
Fausto Paravidino che porta in scena la terza mise en espace del
progetto Orazio, il laboratorio di scrittura iniziato più di un anno fa e
che, attraverso la collaborazione con Fabula
mundi, Premio letterario di respiro
internazionale, punta i riflettori su una drammaturgia di nicchia e, in quanto
tale, di grande spessore e vivo interesse.
Dopo
l’incursione argentina di Besame mucho e del nostrano Homicide
House, questa volta sul palco del Valle
arriva BÁNYAVIRÁG-Fiori di miniera, pluripremiato testo ungherese dello scrittore Csaba Székely. Siamo in
un paesino minerario della Transilvania; l’intera vicenda si svolge nell’unico
ambiente visibile al pubblico: una cucina, crocevia dell’umanità carnale e
della frustrazione che albergano negli abitanti della piccola comunità. Un
intreccio di storie che compongono “la storia”. Tratti duri, tinte forti, humor
nero. Bella e avvenente, Ilonka; rude come un colpo di scure, Ivan. Siamo a casa dei
due fratellastri; nell’altra stanza c’è il
vecchio, il padre malato che tiene incatenati
entrambi i figli ad un capezzale sterile, senza pena né amore. Transitano
all’interno dell’ambiente il dottore e una coppia di vicini di casa, Irma e Mihály.
Come
accade nella realtà senza stucchi e senza velluti, laddove aleggiano
insoddisfazione e forze represse, si percepisce nell’aria un’energia
particolare, palpabile, potente, malsana. Il ritmo della vicenda punta subito
in alto, un crescendo veloce che determina un ritmo sostenuto già dalle prime
battute. Ognuno urla e recrimina la propria delusione, reclama il proprio posto
nel mondo, maledice la propria vita incastrata in una cittadina grigia e
triste, proprio come i diamanti prigionieri della miniera.La regia di Andrea Collavino restituisce un’ambientazione classica ai limiti della sacralità, un adattamento che, per stile ed atmosfere, richiama l'immaginario apollineo del celeberrimo Zio Vanja. E non a caso. È lo stesso Csaba Székely a rivelare, a fine spettacolo, la genesi di Fiori di miniera, episodio che compone la trilogia Storie di miniera.
«Partecipai ad un
contest letterario - racconta Székely - una sorta di concorso per
giovani drammaturghi. Decisi di ispirarmi a Zio Vanja, con l’urgenza di
raccontare, però, piccole storie della mia terra. Da qui, il giusto compromesso:
rendere omaggio a Cechov mantenendo inalterati nomi dei personaggi e clima degli ambienti, e nello stesso
tempo dare respiro alla mia urgenza di narrare il micromondo dei villaggi di
minatori, posti spesso ai limiti della realtà, quella Transilvania che viene
omessa nelle guide turistiche, dove la percentuale di suicidi equivale al
doppio di quella dell’intera Romania. Quella terra di mezzo dove l’alcool
diventa compagno di vita già a undici anni; dove, nel bosco, è più facile
trovare gente impiccata che taglialegna intenti al proprio mestiere. Una terra
che le donne lasciano. Perché loro, le donne, hanno il coraggio di farlo.»
Gli attori in fieri di Paravidino sono bravi,
puntuali, efficaci; l’escamotage del copione a vista è funzionale, più che
altro, a conferire alla rappresentazione valore di work in progress; di fatto, gli
interpreti, nonostante la sana artigianalità del lavoro proposto, non
sembrerebbero averne bisogno. Anzi, in più di un’occasione, sfruttano
l’impiccio e l’impaccio del testo alla mano come un’azione scenica, dimostrando
grande prontezza e una padronanza del mezzo che arriva al pubblico chiara e
diretta.
Classico il testo, di grazia perfetta
l’ambientazione, contemporanea la resa. Paravidino ha individuato la formula giusta
con cui sdoganare il teatro di parola, qualcosa che, complice un radicato e
modaiolo atteggiamento radical-chic, al giorno d’oggi fa quasi paura. Come a dire che
per essere contemporanei, nel teatro dei nostri giorni, non serve
necessariamente sciorinare un flusso di coscienza a testa in giù.
traduzione Flaminia Caroli|
Angelica Leo
supervisione Fausto Paravidino |
Tamara Torokmise en espace di Andrea Collavino
con Iris Fusetti |Aram Kiam | Davide Lorino | Fausto Paravidino| |Aurora Peres
direttore di produzione Flaminia Caroli