martedì 25 novembre 2014

Fiori di miniera


 
C’è una sala gremita, si paga un biglietto d’ingresso e in più è giovedì. E piove. Per giunta gli attori non hanno neanche studiato a dovere: hanno ancora il copione in mano!
Un piccolo, anonimo miracolo italiano? No. È il teatro contemporaneo al Teatro Valle Occupato. È Fausto Paravidino che porta in scena la terza mise en espace del progetto Orazio, il laboratorio di scrittura iniziato più di un anno fa e che, attraverso la collaborazione con Fabula mundi, Premio letterario di respiro internazionale, punta i riflettori su una drammaturgia di nicchia e, in quanto tale, di grande spessore e vivo interesse.

Dopo l’incursione argentina di Besame mucho e del nostrano Homicide House, questa volta sul palco del Valle arriva BÁNYAVIRÁG-Fiori di miniera, pluripremiato testo ungherese dello scrittore Csaba Székely. Siamo in un paesino minerario della Transilvania; l’intera vicenda si svolge nell’unico ambiente visibile al pubblico: una cucina, crocevia dell’umanità carnale e della frustrazione che albergano negli abitanti della piccola comunità. Un intreccio di storie che compongono “la storia”. Tratti duri, tinte forti, humor nero. Bella e avvenente, Ilonka; rude come un colpo di scure, Ivan. Siamo a casa dei due fratellastri; nell’altra stanza c’è il vecchio, il padre malato che tiene incatenati entrambi i figli ad un capezzale sterile, senza pena né amore. Transitano all’interno dell’ambiente il dottore e una coppia di vicini di casa, Irma e Mihály.
Come accade nella realtà senza stucchi e senza velluti, laddove aleggiano insoddisfazione e forze represse, si percepisce nell’aria un’energia particolare, palpabile, potente, malsana. Il ritmo della vicenda punta subito in alto, un crescendo veloce che determina un ritmo sostenuto già dalle prime battute. Ognuno urla e recrimina la propria delusione, reclama il proprio posto nel mondo, maledice la propria vita incastrata in una cittadina grigia e triste, proprio come i diamanti prigionieri della miniera.

La regia di Andrea Collavino restituisce un’ambientazione classica ai limiti della sacralità, un adattamento che, per stile ed atmosfere, richiama l'immaginario apollineo del celeberrimo  Zio Vanja. E non a caso.  È lo stesso Csaba Székely a rivelare, a fine spettacolo, la genesi di Fiori di miniera, episodio che compone la trilogia Storie di miniera.

«Partecipai ad un contest letterario - racconta Székely - una sorta di concorso per giovani drammaturghi. Decisi di ispirarmi a Zio Vanja, con l’urgenza di raccontare, però, piccole storie della mia terra. Da qui, il giusto compromesso: rendere omaggio a Cechov mantenendo inalterati nomi  dei personaggi e clima degli ambienti, e nello stesso tempo dare respiro alla mia urgenza di narrare il micromondo dei villaggi di minatori, posti spesso ai limiti della realtà, quella Transilvania che viene omessa nelle guide turistiche, dove la percentuale di suicidi equivale al doppio di quella dell’intera Romania. Quella terra di mezzo dove l’alcool diventa compagno di vita già a undici anni; dove, nel bosco, è più facile trovare gente impiccata che taglialegna intenti al proprio mestiere. Una terra che le donne lasciano. Perché loro, le donne, hanno il coraggio di farlo.»

Gli attori in fieri di Paravidino sono bravi, puntuali, efficaci; l’escamotage del copione a vista è funzionale, più che altro, a conferire alla rappresentazione valore di work in progress; di fatto, gli interpreti, nonostante la sana artigianalità del lavoro proposto, non sembrerebbero averne bisogno. Anzi, in più di un’occasione, sfruttano l’impiccio e l’impaccio del testo alla mano come un’azione scenica, dimostrando grande prontezza e una padronanza del mezzo che arriva al pubblico chiara e diretta.
Classico il testo, di grazia perfetta l’ambientazione, contemporanea la resa. Paravidino ha individuato la formula giusta con cui sdoganare il teatro di parola, qualcosa che, complice un radicato e modaiolo atteggiamento radical-chic, al giorno d’oggi fa quasi paura. Come a dire che per essere contemporanei, nel teatro dei nostri giorni, non serve necessariamente sciorinare un flusso di coscienza a testa in giù.

 
Pamela Del Grosso
30 gennaio 2014
 

traduzione Flaminia Caroli| Angelica Leo
supervisione Fausto Paravidino | Tamara Torok
mise en espace di Andrea Collavino
con Iris Fusetti |Aram Kiam | Davide Lorino | Fausto Paravidino| |Aurora Peres
direttore di produzione Flaminia Caroli

End of the rainbow


 
Un gigante che veste i panni di un gigante. È Monica Guerritore sul palco del Teatro Eliseo di Roma, una grandissima interprete che, sotto la regia di Juan Diego Puerta Lopez, ripercorre le ultime settimane  di vita di Judy Garland, celeberrima attrice e cantante holliwoodyana. End of the rainbow, tratto dal musical biografico firmato da Peter Quilter, celebra l’artista e racconta la donna, una femminilità complessa, nuda e cruda, quella che, spesso, si cela dietro la patina laccata del palcoscenico.

È il Natale del 1946; Judy Garland alloggia all’Hotel Ritz Carlton di Londra e, in compagnia del giovane amante Mickey Dins (Alessandro Riceci)  e del fedele amico e pianist Anthony ( Aldo Gentileschi), si appresta a pianificare la tournèe londinese. Tutto scricchiola già a partire dai primi attimi: Judy interpreta se stessa, la parodia di una quaranteseienne stanca e perduta, una gallina dalle uova d’oro prigioniera di uno show business popolato da sciacalli. Le vicende si snodano in due atti, lo svolgimento della storia è brutalmente fedele agli accadimenti di quelle fatidiche sei settimane che precedettero la morte della grande artista; un tempo scandito da alcool e anfetamine, dal disperato bisogno di una umanità negata, dalla bella mostra della corruzione, tanto emotiva quanto fisica.

Monica Guerritore sperimenta una nuova fase della propria gloriosa carriera, iniziata all’età di sedici anni sotto la guida di Giorgio Strheler, cimentandosi in una vera e propria prova da attrice, a dimostrazione che le conferme arrivano a qualunque età. Canta, sfoggia una voce calda e importante, entusiasmando il chiassoso pubblico del Teatro Eliseo  quando intona For once in my life, la canzone che Judy dedicò a Mickey, il primo uomo che la fece sentire amata. Magistrale tanto nell’ironia quanto nella disperazione, Monica Guerritore si muove abile fra gli spazi comunque obbligati del teatro borghese; è lei a determinare il ritmo e la temperatura della scena, ogni evoluzione è calibrata da quella intensità interpretativa, la stessa che permette ai due co-protagonisti di emergere solo quando si ritrovano soli sul palcoscenico.

Arredamenti sontuosi, il bianco panna e l’oro zecchino vestono la suite del Ritz che fa da sfondo alla narrazione; una ricostruzione fedele, minuziosa e generosa di particolari ricercati. I cambi di ambientazione portano in scena la piccola orchestra che suona dal vivo e che conferisce a 360° la dimensione del varietà, dell’avanspettacolo, sospendendo l’attenzione del pubblico in una dimensione di metateatro fruibile e convincente.
 
Pamela Del Grosso
11 dicembre 2013

Ferite a morte

Finchè morte non ci separi
 
 
Sul talloncino che ricevo all’entrata, leggo i dati di una donna salita agli onori della cronaca per essere stata uccisa. Febbraio 2013, Livorno. Bruna Porazzini, 75 anni.

Il Teatro Valle Occupato, la sera dello scorso, freddissimo, lunedì 25 novembre, non distribuiva biglietti d’ingresso, bensì piccoli epitaffi di donne morte ammazzate. Storie tutte uguali: medesima follia, medesimo triste epilogo.

 Sul palcoscenico romano Monica Scattini, la violoncellista Julia Kent e le Gocce di Arte, le attrici del laboratorio di recitazione condotto da Tony Allotta. Finché morte non ci separi è uno dei numerosi eventi con cui la Capitale ha voluto dar voce alla piaga del femminicidio, mentre, in contemporanea,  altri 20 teatri d’Italia ospitavano il medesimo testo di Francesco Olivieri.

 L’atmosfera è solenne, un po’ cupa, come sia normale che accada quando ci si appresta a celebrare certi fatti inauditi. A monte di una collettività che si adopera affinché il silenzio non cada, inesorabile, su centinaia e centinaia di donne brutalizzate, esiste uno Stato (più o meno) laico che ancora non ha ben capito come destreggiarsi fra rigidi precetti religiosi, inefficaci normative garantiste e diffusione di un messaggio culturale distorto, più commemorativo che preventivo.

Dal testo di Olivieri, nelle parole della Scattini, due storie racchiudono il senso della serata: Federica Mellori, donna semplice di provincia, sgozzata dal proprio principe azzurro; Ipazia Fiorentini, donna in carriera, femmina trucidata da un colpo di pistola in testa per mano del proprio amorevole compagno.

Entrambe le storie sono ricche di dettagli, una scrittura a tratti tragicomica che l’attrice toscana, illuminata da un occhio di bue quasi al limitare del boccascena, legge e interpreta incarnando tutte le sfumature dei fatti narrati, da quelle più tenui a quelle più profondamente nere che sfociano nel buio irreversibile di un funerale. Sempre uguale, sempre lo stesso: madri che piangono calde lacrime disperate, un po’ per le figlie scomparse, un po’ per se stesse, loro che per prime sono state donne abusate non in grado di mettere in guardia la propria prole; figli, spesso piccoli, che non si rendono conto della separazione a cui non c’è ritorno; amici e parenti tutti, ognuno stretto nel proprio dignitoso dolore, ognuno, in fondo, un po’ responsabile, un po’ complice.

 Il violoncello di Julia Kent incide il tempo delle tristi favole, una colonna sonora che si fonde indissolubilmente con l’incedere del recitato; sul fondo le attrici laboratoriali, tutte vestite di nero, a impersonificare la fitta schiera di tutte quelle donne che ci hanno lasciato, ragazze, femmine, persone. Ammazzate, ancora una volta.

 

 Pamela Del Grosso
25 novembre 2013
 

Teatro Valle Occupato
Testo e regia: Francesco Olivieri
Interpretato da: Monica Scattini
Accompagnamento musicale: Julia Kent
Con la partecipazione delle: Gocce di Arte

Buca di sabbia




Un doppio specchio, questo è Buca di sabbia di Micha Walczak, andato in scena al Teatro dei Conciatori con la regia di Gabriele Linari. La storia dell’incomunicabilità della coppia, della quasi impossibile interazione fra uomo e donna, fra il prototipo del maschio alfa e della femmina che tutto sopporta e tutto contiene. Un argomento trito e ritrito, vecchio come il mondo, se non fosse che la trasposizione scenica di Linari conferisce al tema un sapore assai più amaro di quanto, in realtà, ci si aspetti. E allora i sensi si destano e l’attenzione si acutizza, come nella migliore tradizione di un voyeurismo tutto teatrale.
Varsavia, estate, c’è caldo; in una buca di sabbia giocano due bambini, Protazek e Mika. Poco lontano da lì, in un’altra buca dove però cacano i cani, gioca Karol. Karol in scena non c’è, non esiste, è solo menzionato; ci sono invece Mika e Protazek, Sabrina Dodaro e Tony Allotta, protagonisti indiscussi di una tragedia banale e disgraziata, così fatalmente prossima a ogni spettatore presente in sala da sembrare quasi una gigante seduta di psicoterapia, dove il trasferimento dei ruoli a carico degli attori è unicamente funzionale al messaggio da veicolare.

Protazek vuol giocare da solo, il suo micromondo interrato racchiude tutto ciò che gli occorre per essere felice:  soldatini, macchinette, un lombrico morto, un pacchetto di sigarette vuoto. Tony Allotta, incarnando sulla scena un bambino, non risulta mai parodistico. Il risultato è, piuttosto,  un attore che si diverte moltissimo, che tiene le fila del proprio personaggio destreggiandosi  in una continua tensione fra ilarità e umorismo crudele.

Non devi superare la riga: io gioco da solo. Protazek  lo ribadisce e lo sottolinea ai danni della povera Mika che si appropinqua ad entrare nell’insolita stanza dei giochi, vocetta stridula, atteggiamento lezioso e una bambola di pezza attaccata al collo, gagliardetto di una beata infanzia.

Ancora una volta i drammi irrisolti della vita vera varcano le porte del teatro, facendo bella mostra di tutta la loro forza, di tutta la loro energia catastrofica. Uomini e donne che non riescono neanche a toccarsi, un flusso di parole che arriva disarticolato, messaggi distorti e contraddittori, come in preda a un eterno smottamento ormonale, una empia adolescenza che non si esaurisce con la maturità anagrafica e nella quale si rimane incastrati per l’eternità. Adulti rappresentati nelle feroci dinamiche dei bambini, bambini che trovano il proprio contraltare nelle azioni proiettate sui giocattoli: è questo il doppio specchio che Buca di sabbia incarna, constatando la realtà senza nessuna concessione pietosa.

Donne che osservano, tentano, si accontentano, si compiacciono e poi soccombono. Uomini smargiassi che imprecano, mostrano i muscoli, ostentano sicurezza e poi si accartocciano su se stessi. Donne e uomini che si cercano e non si afferrano mai, prigionieri di una giostra della rabbia che gira gira e ancora gira, in un perimetro dove la vittima diventa l’aguzzino che scatena la furia del carnefice, alimentando frustrazioni e debolezze.

Una scelta ardua quella di addentrarsi nelle fitte tessiture dei rapporti di coppia, così delicate, così precarie, così malate. Molto meglio andare a giocare nella buca cacata di Karol, dove non c’è carnalità e tutto è più facile, almeno in apparenza.

Due stili recitativi agli antipodi marcano la caratterizzazione dei protagonisti: misurata e intimistica Sabrina Dodaro, esplosivo e istrionico Tony Allotta, che abita il palcoscenico con lo stesso vigore con cui Protazek difende il sacrosanto spazio della propria buca. Entrambi si avvalgono di una presenza vocale importante, a dispetto della non propriamente ortodossa insonorizzazione del teatro ospitante!

Una parabola al fiele è ciò che rimane alla fine di Buca di sabbia: le interazioni umane passano obbligatoriamente per la sofferenza, nell’incapacità di non ferirsi reciprocamente. Un diktat al quale non ci si può (e non ci si deve?) sottrarre.
 
 
Pamela Del Grosso
23 novembre 2013

Casa dolce casa



Sette giovani artisti aprono in modo impeccabile la stagione del neo nato Teatro Kopò, lo fanno con genuinità e freschezza, portando in scena Casa dolce casa, spettacolo frutto di una drammaturgia composta in poco più di tre ore, come racconta la regista Sara Corelli.

Riconoscibile, scorrevole, probabile, la vicenda scorre fluida fin dalle prime battute e la fedele ricostruzione di un salotto anni ’60 incornicia gli avvenimenti: Giovanni insiste affinchè sua sorella Maria e suo cognato Natalino lascino la casa in cui vivono tutti e tre assieme, assistiti dalla materna figura di Tina, la domestica. Giovanni mette a punto un piano che porterà due bislacchi avventori a visitare l’abitazione per acquistarla; sarà a questo punto che gli accadimenti prenderanno una piega totalmente inaspettata, conferendo alla rappresentazione differente temperatura e nuovo senso. Lo sciogliersi degli intrighi trova uno spettatore compiaciuto, che, adagiato sulla linearità di una vicenda prevedibile e dall’esito quasi scontato,  viene colto di soprassalto, tanto da avere la sensazione di assistere a uno spettacolo nuovo. O di assistere allo stesso accadimento, ma con una predisposizione d’animo ribaltata, rinverdita dalla estemporanea sferzata di energia.

Casa dolce casa si designa come un ben riuscito omaggio alla commedia teatrale italiana, rifacendosi dichiaratamente e senza pretesa alcuna allo stile affabulatorio dei  giganti fratelli De Filippo; tempi comici giusti, ottima intesa tra i giovani attori che, anche in presenza di qualche piccola défaillance, dimostrano una padronanza del mezzo degna di grandi citazioni. L’atmosfera che si crea è quella rassicurante delle cose buone, fatta di personaggi ascritti in comportamenti stereotipati ma mai noiosi;  una familiarità da sabato sera, trascorso, appunto, in casa.

Particolarmente degne di nota le interpretazioni di Pierfrancesco Perrucci nei panni di Giovanni, e di Pamela Vicari nei panni della domestica. Una recitazione briosa e pregna di iniziativa, capace di colorire e caratterizzare la consuetudine di un clichè tipico.

Giunto il momento degli applausi, in sala ci sono tanti sorrisi sornioni e un leggero ma palpabile velo di commozione; si ha voglia di riavvolgere il nastro e rivedere lo spettacolo con l’occhio di chi già sa come va a finire, così da catturare quei piccoli determinanti dettagli che facevano preludere qualcosa  al quale, però, non si riusciva a dare un nome. La forza drammaturgica di Casa dolce casa sta proprio qui.
 
Pamela Del Grosso
11 ottobre 2013

Ferocemadreguerra

Del selvaggio dolore di essere uomini
 
 

Qualcosa mi dice che lassù ad attendermi possa esserci un sopravvissuto e tenace brandello del Living Theatre, una Judith Malina in gentile concessione alla plumbea provincia torinese; la pioggia si rende artefice e complice di un’atmosfera sui generis, sinistramente pregna di aspettativa. Non li ho mai visti dal vivo, i Ferocemadreguerra, quello che so me lo hanno raccontato: una potenza scenica molto forte, urla viscerali, inusuale prossimità rispetto al pubblico. Mi capita addirittura di perdermi nel bosco, nel tentativo di raggiungere il luogo prestabilito, rispetto al quale le mie certezze, sul fatto che possa esistere davvero, iniziano a vacillare; ma il felice epilogo arriva, si staglia su un piccolo piazzale in pendenza, uno sperone di roccia dove sorge la chiesa di Santo Stefano, per l’occasione habitat in prestito alla compagnia capitanata da Michele Di Mauro. Sono direttamente loro ad accogliere gli spettatori, già personaggi con i vestiti di scena addosso, un extraquotidiano guardaroba fatto di abiti da sera e scarpe da ginnastica. Leopardate.

Del selvaggio dolore di essere uomini si apre con uno scambio di battute fra attori e pubblico, un’insolita interazione che destabilizza già a partire dai primi minuti; domande dirette, fredde, a bruciapelo, rispetto alle quali, per inerzia, si fornisce solo la prima banale risposta che la trasmissione di un elementare impulso cerebrale generale. A tutti una seconda possibilità o esiste davvero qualcuno che merita di morire? - Nessuno merita di morire - proclama una spettatrice. E si aprono le danze. Un incedere sincopato fatto di ritmi veloci, parole soffiate, grida uterine, gesti sospesi rimasti a mezz’aria, emiparesi volutamente iconoclastiche. Muovono da lo Stabat mater furiosa di Jean Pierre Simeon i Ferocemadreguerra, passando per Elsa Morante, Antonin Artaud, Giovanni Testori, Shakespeare; approdano ad un testo inedito, il proprio, un inno alla disillusione, con la ferocia tipica delle verità più scomode. Proclamano una guerra culturale, chiedono alle coscienze di destarsi dal piacere che provoca il vuoto del non-sapere; anelano una seconda interpretazione della realtà, quella brutale, quella autentica, l’unica possibile.
CANCELLARE_EFFETTO_DOLCEZZA è il leitmotiv che accompagna il portentoso delirio lucido delle tre attrici, fisicità e temperamenti a confronto così intimamente differenti tra loro, tre Moire che profetizzano l’inutilità dell’accondiscendenza e si beffano degli stereotipi esasperandoli fino all’inverosimile. La scena è reale tanto quanto l’accadimento che sta avendo luogo, nella mistica cornice di una chiesa affrescata; cambiare d’abito, indossare una parrucca, bere un sorso d’acqua, riprendere fiato, tutto avviene in luce, un happening spasmodico all’insegna dell’imprevedibilità.
Michele Di Mauro assume all’interno del componimento una funzione antesignana, continuamente
dentro e fuori l’interpretazione di un ruolo che comunque non esiste. Provocatore, all’occorrenza moderatore, si muove abile fra le quinte, il pubblico e il componimento scenico, tenendo le fila di cotanta modernissima epopee.

La vita ti chiede, per amarti, di essere ferita. Vige l’assoluta necessità di superare i propri limiti, di fare ricorso ad un coraggio cattivo.

Un gioco continuo di rimandi, di analogie, di congruenze mai casuali. Il quartetto si siede su una schiera di sedie allineate; guarda oltre il pubblico, sta vedendo un film. Uno scambio di battute lisce, dritte, a tutti e a nessuno; arrovellamenti della mente ad alta voce, amare considerazione sulla condizione umana, sul baratro che attende, famelico, coloro che si lasceranno convincere, tutti quelli che non rischiano niente, che non guardano alla sofferenza come ad una possibilità di cambiamento radicale.  In sottofondo campeggia la più celebre delle sodomie perpetrate nel cinema, Marlon Brando e Maria Schneider riassumono la disperata sorte dell’uomo. L’equivalenza è sottile, a tratti geniale, perfettamente calzante nella sua semplicità sillogica. E ancora, la Febbre di Sarah Kane aleggia mentre una nenia di “mi piace” si libra nell’aria, nelle parole di Francesca Brizzolata: mi piace l’odore del mio sudore quando sono agitata. Una preghiera che suona come una maledizione chiude lo spettacolo, nell’ardente, densissima interpretazione di Francesca Bracchino. Una giovane spettatrice piange accorata in seconda fila. Una breccia è stata aperta. Missione compiuta.

A fine spettacolo i Ferocemadreguerra mi concedono un po’ di tempo, mentre fuori la pioggia biblica non accenna ad arrestarsi. Parlo con Carlotta Viscovo; scopro, dietro ad una presenza scenica vorace e totalizzante, una donna che ha voglia di raccontare una storia, la genesi di una storia, disposta e disponibile a soddisfare qualche perché. Mi parla della scelta relativa al tema della guerra, che trae origine dal conflitto in Libano riportato da Simeon; da lì l’idea di creare un ponte fra il macello delle carni e il macello dell’intelletto, che si può e si deve fermare attraverso l’avveduta cognizione dei fatti. Mi sorprendo non poco nello scoprire che lo spettacolo che ho visto stasera è stato un evento unico e irripetibile nel suo genere: Carlotta racconta che ogni componente della compagnia conosce l’intero testo della rappresentazione e che in scena non vige mai un vero e proprio accordo rispetto al chi dice cosa e quando. L’intera struttura drammaturgica poggia su pochi canoni fissi all’interno dei quali gli attori si muovono abilmente, funamboli della parola oltre che dell’azione. Contemporanei quindi anche nella logistica: se le possibilità non lo dovessero permettere, a muoversi per portare in giro una replica potrebbe essere anche un solo attore. Un esperimento in continuo divenire, una vera e propria fucina di senso.

È Michele Di Mauro a parlarmi, invece, dell’importanza di azzerare la distanza fra attori e pubblico, una contemporaneità che si rifà alle origini, un punto di vista spesso rinnegato e in fondo poco comune perché giudicato troppo invasivo, una sorta di violenza d’essai alla quale non si è abituati e rispetto alla quale ci si presta malvolentieri. Risulta piuttosto un coinvolgimento fertile per quanti sono disposti ad abbassare qualche barriera, a mettersi in discussione. Per tutti coloro disposti a reagire. - È un teatro di nicchia -, continua Di Mauro, - perché comporta la sovraesposizione tanto dello spettatore quanto dell’interprete che, paradossalmente, preferisce spesso esporsi quel tanto che basta a non scoprirsi totalmente. Come se, davvero, quello dell’attore fosse solo un mestiere.
 
 Pamela Del Grosso
28 settembre 2013

Chiesa di Santo Stefano, Comune di Chiaverano (TO)
Uno spettacolo di: G.U.P. Alcaro, Francesca Bracchino, Francesca Brizzolara, Lucio Diana, Michele Di Mauro, Carlotta Viscovo

Prodotto da: FMG in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi/Morenica_Cantiere Canavesano/ Bottega CAP10100

Doppia identità elevata al superficiale

Anarchia scientifica nei Giardini della Filarmonica
 
 
Il copione è sempre lo stesso: una scena senza scenografia abitata da installazioni; un palco senza attore dove a muoversi, onnipotente, è il più grande performer vivente; una serata con una dose di aspettative inversamente proporzionali. Palpabili quelle del pubblico, copioso come di consueto nonostante una Roma che, graziata dagli esodi estivi, offre una godibilità tristemente fittizia; assenti quelle del protagonista assoluto, Antonio Rezza, che nulla si aspetta dalla platea se non ciò che meticolosamente e scientificamente calcola durante la gestazione dei suoi lavori, i lunghi mesi in cui vive gli habitat della portentosa Flavia Mastrella, l’altra metà del sodalizio artistico. La cornice dei Giardini della Filarmonica delimita i confini dell’ennesima serata sperimentale a cui la coppia da vita, portando sulla scena Doppia identità elevata al superficiale, un collage di estratti di spettacoli precedenti, una ricerca minuziosa e acerrima che porta in superficie la quotidianità e non i suoi orrori, perché le due entità non possono essere scisse. Sul palco anche Ivan Bellavista, presenza ormai pressoché costante nelle creazioni del celebre duo; scientifico anche lui, esatto nelle posizioni volutamente marginali, nelle azioni di servizio che, a ben guardare, costituiscono l’ossatura dell’evento tanto quanto le funambolerie fisiche e dialogiche dell’accentratore Rezza. Colpi precisi, sferzati senza possibilità di replica, una variante neanche lontanamente contemplata; azioni mirate, numeriche, bombardamenti perpetrati  attraverso una sequela costante di input impietosi a cui fanno seguito le risa e gli applausi degli spettatori, divertiti come se davvero capissero ciò che sta accadendo. Una reazione paradossale se si pensa che oggetto di questa deridente e inconfutabile analisi sono le bassezze e le meschinità delle quali siamo quotidianamente artefici e prigionieri, tanto quanto l’impiegato della piccola torre gemella, uno dei numerosi personaggi claustrofobici che, estemporaneamente, abitano il corpo di Antonio Rezza.

Manipolatore d’eccellenza, cerca e trova intelligenti pertugi attraverso i quali fare bella mostra della bonaria corruttibilità umana; mima una doccia, canticchia e fischietta mentre impunemente si strofina le parti intime, simulando una cabarettistica insaponatura degna di un Karl Valentin d’altri tempi. Il rigoroso meccanismo rezziano prevede, come sempre, un divertito sdegno della platea che, dimentica di quali reconditi anfratti abbiano perlustrato quelle stesse mani poco prima, si sollazza nella profusione di carezze che Antonio Rezza dispensa agli sventurati spettatori delle prime file. Umori corporei quindi, a tramortire il tabù sociale del contatto, della vicinanza, del contagio, e a rimarcare il concetto dell’incurabile labilità umana, così tristemente incline a se stessa.

Sempre altisonante l’accusa mossa alla Chiesa, ai preti e a tutto l’organigramma ecclesiastico, quell’insieme che Rezza non riconosce come istituzione bensì come associazione a delinquere, fondata, tra le altre cose, su una singolare commistione tra indulgenze e pedofilia. E ancora muove dal sacro, inscenando, con Ivan Bellavista, il siparietto di un Cristo e una Madonna che si litigano la scena ne La Pietà del Mantegna. Rimandi palesemente rintracciabili si alternano a pure acrobazie del genio riferibili unicamente a se stesse, frutto di un gesto vivo e necessario, non subordinato alla parola, volendo rintracciare una gerarchia nell’atto della creazione. Tacciato di individualismo Antonio Rezza ne dà sempre puntuale conferma, elogiando il lato positivo (l’unico a suo avviso possibile) dell’autoreferenzialità dell’arte.

La doppia identità annunciata nel titolo si ritrova nella differente natura tra cittadino e cittadini, tra contadino e contadini, tra Kunta Kinte e Kunta Kinti; Rezza, con l’abituale perizia chirurgica che non sfocia mai in impeto lirico, disegna i tratti del singolo in rapporto con se stesso e del singolo inserito nella massa. Un’amena rete di clientelismo che, in un gioco di paradossi, sembrerebbe enunciare l’esatto contrario del Documento programmatico della RAF di Ulrike Meinhof.

Una doppia identità che ancora si risolve nella sconsideratezza della maternità. Antonio Rezza, fasciato in una guaina fuxia, che gli conferisce sinistra sinuosità, presta corpo e voce a una femmina fattrice che fantastica sul destino della prole ancora in grembo; un’esistenza venduta, viziosa e depravata ancor prima di assurgere a indegna dignità di vita.

 

Non è un teatro primitivo quello della coppia Rezza-Mastrella, perché per essere tale dovrebbe rifarsi all’origine di qualcosa. È un teatro estremamente contemporaneo, figlio del fecondo decadimento di questi tempi alterati. Non significa, come sosteneva Clive Barker a proposito dei teatri-laboratorio, galleggiare in mezzo all’oceano, aggrappati ad un isoletta di spazzatura, fra puzza e merda. Antonio Rezza e Flavia Mastrella su quella malsana isoletta di rifiuti ci stazionano da sempre; si sporcano per intero ed esperiscono, compiaciuti, il proprio disagio.
 
 
Pamela Del Grosso
9 agosto 2013

 
RezzaMastrella – TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello – Fondazione Teatro Piemonte Europa
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
Estratti in tema tratti dalle opere Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28
Garofano verde 2010
habitat di Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
consulente tecnico Mattia Vigo

Procedere per sottrazione


Fratto_X di Rezza-Mastrella sul palco dell’Eclettica Festival
 
 

La penna si fa pesante e il classico imbarazzo da foglio bianco questa volta assume i connotati di una pulsione ambivalente: resistere o mollare. Resistere, perseverare nel cercare le parole che traducano Antonio Rezza; mollare, non assecondando il capriccio di avventurarsi in cotanto vezzoso esercizio di stile.

Ci si sente estremamente piccoli al cospetto di Antonio Rezza e subentra una strana forma di pudore quando ci si avventura nell’analisi del suo operato. Sarà perché buona parte del lavoro firmato   è volta proprio a destrutturare e smascherare le interpretazioni e gli stessi sistemi interpretativi, e ritrovarsi quindi a restituire “pan per focaccia” rende la scrittura scomoda e rischiosa. Sarà perché l’analisi che effettuano è chirurgica, metodica, completamente avulsa da qualsiasi condizionamento morale e ideologico, così efficace e diretta (spesso ai limiti del sopportabile) da non necessitare di postille postume.

“Con il consenso non si va da nessuna parte amico mio”. Così Antonio Rezza apostrofa uno spettatore che applaude in maniera inopportuna. Non c’è il personaggio dietro a simili roboanti manifesti; il personaggio, per tutto ciò che orbita attorno a Rezza, non c’è mai. È un’inflessibile integrità morale dettata dalla disillusione, dalla disperazione e da un’algida obiettività a rappresentare la base della sua riflessione e della conseguente trasposizione scenica. Nel suo spingersi costantemente oltre il limite del non detto, Rezza sembra non essere mai  abbastanza.

Fratto_X sul palco dell’ Eclettica Festival esplode come una necessità, consapevole per ciò che riguarda il più grande performer vivente, indotta per quanto riguarda gli spettatori, tanti, tantissimi, febbricitanti, assiepati sotto la tensostruttura del Parco delle Energie. Rezza, come di consueto e com’è suo dovere, non fa sconti a nessuno; trasfigurato, mortificato in un corpo che è vettore di senso, si pone di fronte a una platea giudicata retriva, divertita anziché terrorizzata dall’implacabile furia di rivelazioni, le stesse che ognuno nel proprio intimo ben  conosce e le stesse rispetto alle quale ognuno, sempre nel calore del proprio intimo, sa di non potere (volere?) sovvertire. L’indulgenza dell’impotenza tiene ogni uomo al riparo di un dolcissimo non-agire. E così siamo tutti salvi. Tutti tranne uno, un augure che sbandiera il non proliferare come atto di impagabile consapevolezza; un profeta sadico, lucido, che sbeffeggia le bassezze dell’uomo scomodando addirittura Fedor Dostoevskij. È lui, è Antonio Rezza, il non attore che non si lascia intimorie da niente, che si scaglia contro l’ansia, la polizia, il delirio di onnipotenza che rende gli essere umani così facilmente soggiogabili. Sul palcoscenico, come sempre, sculture, guaine e marchingegni firmati Flavia Mastella, giocoforza del portentoso disegno onirico. L’industrioso Ivan Bellavista, per l’occasione palesato in efficace veste attoriale, conferisce a Fratto_X una spettacolarità che generalmente manca alle produzioni Rezza-Mastrella, principalmente volte a una imprescindibile e forsennata destrutturazione di significato.

 

Pamela Del Grosso
30 luglio 2013

Eclettica Festival 2013, IX edizione, Parco delle Energie
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista

testo Antonio Rezza
allestimento scenico Flavia Mastrella

Il Protocollo


L'esilio della parola
 
Ridere degli altri con incommensurabile leggerezza è ciò che maggiormente rende diversa la sensazione di essere puro e semplice spettatore dalla sensazione di appartenenza. Quando poi invece capita che il racconto tocchi corde che sentiamo appartenerci, allora il sorriso c’è, ma è stentato, è teso. Imploso. Ridere di gusto quindi, ma senza la leggerezza del distacco.

 

Potrebbe essere questa una sintesi a proposito de Il protocollo di Igor Grcko, andato in scena su uno dei tre palchi arrampicati all’interno di Villa Mercede, storico parco del quartiere San Lorenzo, nell’ambito del Roma Fringe Festival 2013. Quattro attrici in scena accolgono lo spettatore nello stesso identico modo in cui lo congederanno: sedute, ancorate ognuna al proprio rigoroso posto, gagliardetto di un’esplicita simbologia che scopriremo soltanto a spettacolo dichiarato, quando sarà ormai evidente che non una sola parola verrà pronunciata. Eppure di cose ne verranno dette tante. Sono i corpi a parlare, la musica, i gesti, la mimica facciale, gli oggetti. Quattro donne raccontano un’intera esistenza, dalla nascita alla morte, evidenziandone ogni passaggio senza risparmiare nulla: dalle fasi più grottesche, a quelle più esasperanti e comiche, passando per l’amaro dei momenti bui, quelli che, come appunto da protocollo, segnano in maniera indelebile il cammino di ogni essere umano.

Antonin Artaud parlerebbe di “trionfo della pura messa in scena”: nulla da cercare oltre, solo uno specchio in cui mestamente riflettersi. Un palcoscenico dove l’oblio classico della scena viene sovvertito da una staticità densa di movimento. Igor Grcko si dimostra un regista che non va alla ricerca di un modo altro per tradurre le parole: semplicemente, non avverte il mordente di un testo. Traspone piuttosto la propria idea di fondo in gesto, svincolandosi in un certo qual modo dall’impianto tradizionale del teatro occidentale e offrendo allo spettatore l’antecedenza della produzione teatrale, quel substrato a cui generalmente si fa seguire la parola scritta e parlata, esistente o inedita.

Igor Grcko ha avuto la perversione di far luce laddove, per ipocrisia o per puro istinto di autoconservazione, si tende a non guardare: i successi della vita a cui immediatamente fanno seguito i fallimenti, le porte chiuse in faccia, le speranze disilluse, le scelte obbligate. Sono gli affanni, il rigore, l’ansia, l’euforia, la rabbia, la stanchezza, umori e stati d’animo che popolano la vita di ognuno, costretto, suo malgrado, a fare i conti con una quotidianità che il regista preannuncia come inesorabile, qualcosa da cui difficilmente ci si potrà esimere. Perché, affermando paradossalmente il contrario, Grcko asserisce che tutta la vita dell’essere umano è volta ad uscire dai binari del protocollo, a differenziarsi da ciò che le quattro attrici mostrano in scena, con un retrogusto di triste rassegnazione verso l’ineluttabilità della sorte. Nulla di mistico o trascendentale; piuttosto un canone ancestralmente radicato, una certezza che, in maniera più o meno latente, risiede in ognuno.

Il regista croato non racconta una storia meravigliosa, anche se il ritmo sostenuto e l’andatura brillante della partitura fanno esplodere più di una risata perché, come è noto, spesso l’ironia è vettore di verità scomode. La trama alla base della rappresentazione non è ancorata a un canovaccio bensì alla vita, una sorta di neorealismo teatrale che introduce all’interno del teatro una nozione nuova di spazio, fisico e mentale. Se è vero che, nonostante tutto, Igor Grcko non va a sondare quel sommerso teatrale fortemente anelato da Artaud, in qualche modo, comunque, propone un punto di vista originale e inaspettato che sorprende il pubblico delle poltrone rosse, e che ben si sposa con la sperimentazione off del Fringe Festival.


Pamela Del Grosso
18 luglio 2013

con (in ordine scenico)
Francesca Renzi
Alessandra Coronica
Isabel Zanni
Emanuela Ventura

regia Igor Grcko
una produzione Format4
www.formazioneattori.it

Orazio, Vite Nude

Luca Vonella chiude la sezione teatro del Roma3 Film Festival 2013. Porta con sé le forme semplici di un teatro a uno, risultato della scissione di un gruppo, Teatro a Canone, e di un percorso, Vite nude.
 
 
 
 

Con ostinazione e laboriosità, l’artista ha saputo tenere le fila di un discorso iniziato come un lavoro corale e culminato nell’assolo di un unico attore in scena, creando, per l’occasione, uno spazio sacrale in cui accogliere gli spettatori.

 Sedie disposte a quadrato attorno a uno spazio vuoto, luce soffusa, attesa in quanto pensiero dell’azione. Luca Vonella dà vita a una raccolta di tre storie, tre novelle sottoforma di rappresentazione; un Hemingway nostrano che si è avventurato nei padiglioni dei manicomi ed è tornato per testimoniare che la realtà, a volte, è meno atroce di quel che sembra.

Il corpo di questo one man show è forgiato ed educato secondo i rigidi precetti del training; lo si percepisce dai movimenti, dalle partiture fisiche che raccontano, ammaliano, escludendo a priori una voice over di cui non si avverte la mancanza. Tre storie di ordinaria follia, di malattia mentale;  tre esistenze raccontate seguendo la consecutio temporum della pazzia. La pazzia dei gesti negati, la pazzia della burocrazia che fagocita la vita; l’insana voglia di normalità.

Vonella legge una lettera, unico struggente stralcio di un amore nato tra le pareti bianche dell’Istituto. Si tratta semplicemente di esseri umani. La demenza non c’entra.

Ci racconta, poi, di una donna e della creatura che ha partorito. L’attore utilizza parole lievi e cantilenanti e quel che di ritorno arriva è la sensazione di essere in un sogno, come se fossimo stati presi tutti per mano e condotti in una bolla di sapone, per vedere finalmente cosa davvero si cela dietro la convenzione, il conformismo, la paura. Vonella ha la straordinaria capacità di distogliere lo sguardo dello spettatore dall’ovvio, dalla prima interpretazione, facile e scontata. Una donna affetta da malattia mentale che partorisce è in prima istanza una madre. Quali travagli, quanti interrogativi, quali indescrivibili emozioni deve provare, deve aver provato? Esattamente gli stessi di una donna che è madre al di fuori dell’Istituto. E così tutto torna e si confutano alcune delle basilari ipocrisie che reggono gli impianti della società.

Una società amara, la stessa che prende a schiaffi il protagonista dell’ultimo racconto; un uomo intriso di poesia che si scontra con una realtà negligente e sterile, perché vincolata dalle norme della morale benpensante.

Il controcanto di quanto avviene in scena è affidato alla musica; Venditti, Pavarotti, Marlene Kuntz. Registri così profondamente diversi che si fondono nell’alchimia del racconto, tracciandone l’incedere nota dopo nota. È anche servendosi della musica che Luca Vonella realizza immagini forti, evocative; è l’attore dilatato, marionetta del suo stesso pensiero che si palesa in forme nitide e riconoscibili.

Un discorso lucido e un ragionamento profondamente laico sono i parametri che regolano il percorso di Vite Nude, affinchè la cultura della guarigione sovverta lo stigma della malattia mentale. Perché guarire si può, Luca lo ha imparato e lo asserisce chiaramente: guarire è possibile, significa divenire autonomi.
 
 
Pamela Del Grosso
4 luglio 2013

Riccicapricci!


La poliedrica personalità di Federica Gumina
 
 

Il battesimo del fuoco Federica Gumina ha scelto di farlo presso il Teatro Manhattan, minuscolo salottino retrò incastonato fra i vicoli del quartiere Monti a Roma. Pochi posti e spazio gremito per la prima rappresentazione teatrale di Riccicapricci! con la regia di Paolo Orlandelli. Un buio luce ed eccola apparire in scena, occhioni sgranati, una montagna di riccioli neri e un orsacchiotto fra le mani: è una bambina che parla con la sua mamma. Fa domande semplici, esige risposte agli epocali quesiti dei piccoli, quel tipo di interrogazioni che il mondo dei grandi, spesso impreparato e disattento, liquida sommariamente.

La cifra stilistica che Federica Gumina, autrice e interprete del testo, ha utilizzato per l’intera rappresentazione è stata la doppia lettura della realtà: indagare l’ovvio esasperandolo in chiave comica. Un canovaccio perfettamente strutturato con tutti i crismi del teatro di rivista di altri tempi.

Il cruccio della bambina è tutto nei suoi capelli, tanti, gonfi, crespi. Troppo ingombranti, talmente ingombranti da impedire la chiusura del cofano della macchina. Le risposte della mamma, voce fuori campo dell’attrice stessa, sono vaghe e vagamente rassicuranti: figurarsi se i capelli sono un problema! E a questa età poi! È la storia del fardello di insicurezze che si cominciano ad affastellare in noi fin da piccoli, quando le sproporzionate dimensioni della realtà rendono il confronto con il mondo faticoso, spiacevole, buffo. Una piccola tragicommedia.

Federica Gumina sfoggia eccezionali doti di trasformismo passando da un personaggio all’altro. Segue il filo rosso della sua personalissima indagine all’interno di una illogica quotidianità che deve necessariamente passare per normalità, complici i tempi, i ritmi, il retaggio culturale imposto da modelli errati ed esagerati, talmente surreali da divenire macchiette. E l’attrice ci gioca perché conosce la materia a menadito e azzarda riletture canzonatorie, divertendo e divertendosi, con acume e perspicacia. I cambi di scena avvengono in luce; la solista-trasformista non perde mai di vista il pubblico, lo catalizza con una mimica facciale pregna di gigioneria e ammiccamenti che sortiscono l’effetto sperato.

Le parrucche sono il tratto distintivo di ogni differente personaggio. Federica ne indossa una rossa e diviene la donnina del prurito, una poveretta che si gratta senza sosta mentre racconta la propria storia, una concatenazione di sfortunati eventi costellati da un marito fedigrafo, un frigorifero vuoto e una corsa in ospedale. E anche qui una domanda epocale: incapaci di reagire ai soprusi della vita, deleghiamo al nostro corpo il compito di “parlare”, fosse anche per mezzo di un pizzicore?

Una parrucca bionda trasforma l’attrice prima nella Dottoressa Lina Penice, ammiccante, eccessiva, un esilarante e dichiarato stereotipo, un involontario omaggio alla Edwige Fenech della commedia sexy. Poi il registro cambia e irrompe sulla scena un’estemporanea insegnante di danza, un mix di cafonaggine e argomentazioni spicce rese da un colorito dialetto romano che l’attrice riesce a padroneggiare senza mai scivolare nell’esagerazione, pur sollevando grande ilarità e apprezzamento nel pubblico. Perché, se è vero che quotidianamente capita di imbattersi in persone che improvvisano un mestiere, raramente capiterà di imbattersi ancora in una insegnante che educa le piccole allieve al grand jeté come se saltassero una merda di cane!

Un caschetto di capelli bianchi trasformano Federica Gumina in una vecchietta sprint, che armeggia sulla scena con un sacchetto di arance e si chiede come sia possibile condannare un ragazzino di 54 anni, quel suo caro figliuolo che senza intenzioni malvagie ha svaligiato una banca. Che mondo!

Chiude la saga la bambina riccia di inizio spettacolo; ormai adulta e libera di poter disporre della propria chioma, si rende conto che lisciarsi i capelli per uniformarsi al mondo è stato un grave errore. Che l’essere al di fuori del coro non è necessariamente un male; è altresì un valore aggiunto per coscienze sopraffini.

Uno spettacolo denso di testo e rimandi interpretativi, sempre godibile e mai prolisso. All’autrice-interprete il merito di aver saputo tener le fila di tante sfaccettate personalità, con garbo, maestria e perfetta presenza scenica.

 

Pamela Del Grosso
28 giugno 2013

 

Nunca más di Pierluigi Bevilacqua

Quando le parole non servono
 
 
Il male è un mistero e, in quanto tale, non può essere rappresentato.
Paul Ricoeur, filosofo francese del primo ‘900, aveva pienamente ragione. Come riproporre il male, quale chiave utilizzare, quali parole? È stato probabilmente interrogandosi su questi spinosi quesiti che il regista pugliese Pierluigi Bevilacqua ha creato la partitura di Nunca màs, lavoro corale andato in scena il 19 e 20 giugno al Teatro Furio Camillo. Uno spettacolo a suggello del lavoro di un anno degli allievi del corso propedeutico avanzato dell’Accademia Teatrale di Roma Sofia Amendolea.

La circostanza degli eventi trova un macabro riscontro ai giorni nostri, come se la Storia, beffarda, avesse architettato una sinistra coincidenza su cui non si può fare a meno di riflettere, con incredulità e amarezza.
25 giugno 1978, mentre all’interno dello stadio Monumental di Buonos Aires si disputa la finale per la Coppa del Mondo Argentina-Olanda, al di fuori di quelle mura continua il piano di sterminio da parte della dittatura militare di 30.000 esseri umani, sotto la guida di Jorge Rafael Videla.
Succede anche oggi, lo scenario cambia, la ferocia no.
Brasile. Dilma Rousseff, presidente a capo del paese, richiama all’ordine e alla calma le migliaia di persone riversatesi nelle strade e nelle piazze per manifestare contro l’evento del calcio spettacolo a cui sono stati destinati ingenti e numerosi fondi, in barba all’orrore delle favelas, alla fame, alla lotta per la sopravvivenza.
A distanza di 35 anni accade di nuovo: all’interno dello stadio si gioca, per le strade si muore.
Non è un genocidio ma il male assurge a medesima triste dignità, qualsiasi sia la forma attraverso cui viene perpetrato.

La tragedia dei desaparesidos, un dolore a cui non è stata ancora messa la parola fine, rivive sul parquet consunto del piccolo teatro di periferia. Pierluigi Bevilacqua ha realizzato un affresco, ha deciso di lavorare per immagini, utilizzando sequenze visive e sonore raccordate fra loro da suggestivi stralci di testo. Ma la parola, in questo spettacolo, non è protagonista; il tema trattato non esige grandi soliloqui. Reclama, semmai, la potenza evocativa del ricordo, affinché tutto questo non accada mai più, Nunca màs.
Nei discorsi dei militari aguzzini dilaga il tema della quotidianità: una birra, le risate, qualche commento a proposito della partita che si sarebbe disputata quella sera stessa. Devono assolvere al noioso compito del rastrellamento dei Montoneros, la resistenza armata che si oppone al regime, e di tanti altri poveri ragazzi,  militanti e non.

Un pallone da calcio è il leitmotiv che accompagna le azioni sulla scena. La corrispondenza fra il gioco la  passione, in ogni sua possibile declinazione, è tristemente affascinante.
I soldati picchiano, gridano, abusano di tutto ciò che incontrano sul proprio cammino. Sono sordi alle preghiere dei dannati e impassibili di fronte alle proprie coscienze, mossi da una bieca subordinazione che li allontana dall’essere uomini. L’Armada mi ha insegnato a distruggere, non a costruire. Probabilmente in questa frase pronunciata da uno dei militari è possibile rintracciare la genesi di tanta efferata crudeltà.

L’immagine che il regista è riuscito a costruire per mezzo delle donne è di una bellezza emozionante. Umiliate fino all’umano limite della sopportazione, le Madri di Plaza de Mayo risorgono dalle proprie ceneri sfidando il regime, il potere, l’inferno. Quello stesso inferno che ha ingoiato figli e figlie, sorelle, nipoti, fratelli, mariti, amici. Cadono e si rialzano continuamente, in una nefasta danza di vita-morte-vita, come solo una donna sa, può, deve fare. I bianchi pañuelos , i bianchi fazzoletti simbolo delle donne argentine, nella visione immaginifica di Bevilacqua, divengono ora laccio di tortura, ora gagliardetto di rivolta, mentre le note di Assassin’s Tango di John Powel creano un’atmosfera densa e prepotente da cui è difficile poter prendere le distanze.
Le stesse donne che non si sono mai arrese chiudono l’auspicio di Nunca Màs. Avanzano verso il pubblico, fiere, stremate ma mai sconfitte;  rivendicano la forza degli occhi licenziati senza motivo, senza ragione dai volti dei propri cari. Cantano in un tangibile crescendo di commozione le parole di Violetta Parra, la cantora della guerra. E si congedano.
"Gracias a la vida que me ha dado tanto"


Pamela Del Grosso

regia Pierluigi Bevilacqua
con Raffaella Trivisonne, Giorgia Guarnieri, Giovanna Paladini, Raffaele Calandrelli, Marcella Santomassimo, Irene Leone, Emanuele Massaioli, Luca D'Onofri, Nausica Benigni, Arianna Matteucci, Giulia Montanari
costumi Monica Raponi
fotografie Fabrizio Coperchi

Lontano, da qualche parte. Esattamente, al Roma3 Film Festival





La dualità che ha caratterizzato il lavoro di Carlo Quartucci e Carla Tatò non si è esaurita; la ritroviamo ancora qui, nella Sala Columbus del Roma3 Film Festival, nel lavoro proposto dal giovane regista Fabrizio Pompei, Lontano, da qualche parte…

Una donna bellissima. Ė amore e morte, seduttrice e sposa. Ė la guerra.

Uno studente, uomo appena fatto, poco più che bambino, assai meno di un eroe. Ė il soldato.

Dalla drammaturgia di Carla Arduini, Fabrizio Pompei ha raccontato il brutale incanto della guerra, della grande guerra, la Prima Guerra Mondiale; lo ha fatto procedendo per immagini, in quello che appare un raffinato esercizio di stile, attribuibile a un esteta prima ancora che a un regista.

Il conflitto mondiale irrompe e la guerra, maliarda, sardonica, irriverente, si presenta senza invito nella stanza dello studente e se lo porta via, all’inferno; lui la segue con la devozione dei suoi pochi anni, per ritrovarsi presto a capire di quale grande inganno è rimasto vittima.

Quello che Fabrizio Pompei ha voluto raccontare è stato questo, tutto quello che la ferocia e la barbarie del conflitto fagocita senza restituire nulla: nomi, storie, lettere, promesse. Le cose piccole, quelle che la Grande Storia non menziona; quelle che non finiscono nei libri, quelle che solo la scatola teatrale sa contenere e, all’occorrenza, mostrare.

 La guerra è terribile, proprio per questo devi amarla con tutto il cuore. Il dichiarato dualismo dello spettacolo si riflette nelle parole di Aldo Spahiu nei panni del soldato che si avvia al fronte, sulle note di Lilies in the Valley. Devi amarla perché l’hai scelta, perché lei ha scelto te, in un sinistro gioco delle parti dove chi soccombe muore senza possibilità di replica.

La guerra, nell’efficace interpretazione di Giulia Tomassi, si gioca la vita dell’uomo a testa o croce; persuasiva e suadente, trascina il soldato in un tango stentato sulle note di Carlos Di Sarli. Lo ammalia, lo consola, lo illude, lo mette di fronte a una gloria che non vale niente.

 L’efficacia delle forme decreta la buona riuscita di questa rappresentazione. Una fotografia ottima, resa da luci sapientemente dosate, raccoglie le suggestioni delle parole e ne restituisce fedele traduzione, rendendo giustizia all’arteficio del teatro.

La scenografia, curata dallo stesso regista, è, nella sua estrema semplicità, un portentoso gioco di scatole cinesi: pedane di legno che nascondono, chiudono, aprono alla vista una trincea, un triste muro del pianto, un orizzonte.

Barometro che avvalora e guida la forza degli eventi è la musica, da Jun Miyake ai Prodigy, dal Fado portoghese agli U2, passando per i Cranberries fino a De Andrè. Una carrellata di suggestioni che si convoglia nelle parole di The End: “ questa è la fine magnifico amico, né salvezza o sopresa. La fine”.

 Fabrizio Pompei non ha inventato niente, perché la guerra è sempre quella, sempre la stessa. Non ha fatto niente di nuovo, ha semplicemente raccontato una storia. Ma lo ha fatto benissimo.

 

Pamela Del Grosso

 Roma3 Film Festival

Sala Columbus
12 giugno 2013

Via delle Sette Chiese 101 d, Roma

 Interpreti: Aldo Spahiu e Giulia Tomassi
regia e scenografia: Fabrizio Pompei
drammaturgia e scelte musicali: Carla Arduini
costumi: Anna Volpi e Marina Vaccarelli
realizzazione scene: Francesco Margutti e Mirella Capannolo
realizzazione costumi: Antonella Martellacci
una produzione: L’Uovo Teatro Stabile di Innovazione Onlus


Il doppio del teatro che tutto contiene

Carlo Quartucci e Carla Tatò al  Roma3 Film Festival
 
 
 
Così poco ortodossi, avvezzi alla decontestualizzazione dell'ambiente in cui si muovono; irriverenti, di quella originalità che puzza ancora dell’odore buono della cantina. La cantina per antonomasia, cioè quella del Teatro classe 1960; quella degli esperimenti, della rivoluzione, dell’incertezza della meta e della convinzione delle idee, così stravaganti, necessarie e vitali.

Carlo Quartucci e Carla Tatò presentano al Roma3 Film Festival Suena Quijano nella città, una lunga dimostrazione di un sogno in fieri, un atelier del laboratorio di Arti Sceniche che ha coinvolto gli studenti dell’Università Roma Tre e che ha già calcato importanti palcoscenici della realtà romana, dal Teatro India al Teatro Argentina.

Un doppio sogno lo definisce Carlo Quartucci, il doppio del teatro che tutto contiene, il teatro come promulgatore di ogni cosa. Un luogo fisico, tangibile, materico, dove tutti sono attori, dallo scenografo allo spettatore, in una grande caotica contaminazione sovrapposta.

Lo spazio della Sala Columbus sembra quasi non riuscire ad arginare gli accadimenti che si susseguono in un andirivieni di voci e gesti; Giovanna Famulari al violoncello crea un tappeto musicale che scandisce il tempo di questa lucida follia.

Sul fondo scorrono le proiezioni di eventi passati: Suena Quijano al Teatro India, la costruzione dell’invisibilità alla Sinagoga di Ostia, un’intervista del 1968, Quartucci e Tatò all’opera con i fratelli Colombaioni.

Le parole dei più grandi cantastorie animano le azioni: Borges, Marlowe, Beckett. Accanto a loro la cantora per eccellenza, Carla Tatò, recita, legge, interpreta. Una Maga Circe non contemporanea, esattamente scolpita nella sua età granitica come le torri di pietra che declama; una Cassandra amplificata dentro la sua stessa portentosa voce.

Una scena che non è scena ma fucina di suono, gesto; lo sciabordio del mare nella parola della cantora è reale e riempie ogni dove.

 Gli studenti-attori corrono, leggono, suonano, si cimentano in esercizi di giocoleria, sperimentano equilibri; le maestranze si muovo nello spazio scenico allo stesso modo degli attori, riprendono e fotografano tutto. Si aggira fra di loro addirittura la donna monitor, una ragazza che filma ogni cosa per mezzo di una telecamera. Le immagini che cattura scorrono simultaneamente su uno schermo attaccato alla sua schiena, un marchingegno leonardesco che catalizza l’attenzione dello spettatore, sedotto e ammaliato da questa realtà filtrata.

Ne consegue una convergenza e una commistione di generi, tecniche e ruoli. Attorno a questi perni ruota l’interesse e l’attenzione di Quartucci e Tatò che, a tal proposito, hanno allestito questo caleidoscopico campo di ricerca, utilizzando la Pentesilea di Kleist come un faro nella notte, quella stessa Pentesilea che Kleist aveva immaginato in viaggio.

 Raimondo Guarino chiede provocatoriamente se tutto questo non sia, alla fine, solo arte impura o l’espressione dell’incontro-scontro fra tecnica e procedure ancestrali. Come Terenzio argomentò di fronte ai grammatici in difesa del proprio lavoro, così Carlo Quartucci risponde dicendo che si tratta semplicemente di contaminazione, che è di per sé una procedura impura in quanto violazione della matrice.

Una bellissima esortazione di Carla Tatò chiude l’incontro: “Abbandonate la drammaturgia dell’azione e anelate alla drammatizzazione del gesto e dell’immagine. Gli attori dovrebbero, come Enea, avere il coraggio di abbandonare la propria terra e andare, vivere, lavorare”.

 
Pamela Del Grosso

9 giugno 2013
ROMA3 FILM FESTIVAL, edizione 2013

Sala Columbus
Via delle Sette Chiese 101 d, Roma