martedì 25 novembre 2014

Buca di sabbia




Un doppio specchio, questo è Buca di sabbia di Micha Walczak, andato in scena al Teatro dei Conciatori con la regia di Gabriele Linari. La storia dell’incomunicabilità della coppia, della quasi impossibile interazione fra uomo e donna, fra il prototipo del maschio alfa e della femmina che tutto sopporta e tutto contiene. Un argomento trito e ritrito, vecchio come il mondo, se non fosse che la trasposizione scenica di Linari conferisce al tema un sapore assai più amaro di quanto, in realtà, ci si aspetti. E allora i sensi si destano e l’attenzione si acutizza, come nella migliore tradizione di un voyeurismo tutto teatrale.
Varsavia, estate, c’è caldo; in una buca di sabbia giocano due bambini, Protazek e Mika. Poco lontano da lì, in un’altra buca dove però cacano i cani, gioca Karol. Karol in scena non c’è, non esiste, è solo menzionato; ci sono invece Mika e Protazek, Sabrina Dodaro e Tony Allotta, protagonisti indiscussi di una tragedia banale e disgraziata, così fatalmente prossima a ogni spettatore presente in sala da sembrare quasi una gigante seduta di psicoterapia, dove il trasferimento dei ruoli a carico degli attori è unicamente funzionale al messaggio da veicolare.

Protazek vuol giocare da solo, il suo micromondo interrato racchiude tutto ciò che gli occorre per essere felice:  soldatini, macchinette, un lombrico morto, un pacchetto di sigarette vuoto. Tony Allotta, incarnando sulla scena un bambino, non risulta mai parodistico. Il risultato è, piuttosto,  un attore che si diverte moltissimo, che tiene le fila del proprio personaggio destreggiandosi  in una continua tensione fra ilarità e umorismo crudele.

Non devi superare la riga: io gioco da solo. Protazek  lo ribadisce e lo sottolinea ai danni della povera Mika che si appropinqua ad entrare nell’insolita stanza dei giochi, vocetta stridula, atteggiamento lezioso e una bambola di pezza attaccata al collo, gagliardetto di una beata infanzia.

Ancora una volta i drammi irrisolti della vita vera varcano le porte del teatro, facendo bella mostra di tutta la loro forza, di tutta la loro energia catastrofica. Uomini e donne che non riescono neanche a toccarsi, un flusso di parole che arriva disarticolato, messaggi distorti e contraddittori, come in preda a un eterno smottamento ormonale, una empia adolescenza che non si esaurisce con la maturità anagrafica e nella quale si rimane incastrati per l’eternità. Adulti rappresentati nelle feroci dinamiche dei bambini, bambini che trovano il proprio contraltare nelle azioni proiettate sui giocattoli: è questo il doppio specchio che Buca di sabbia incarna, constatando la realtà senza nessuna concessione pietosa.

Donne che osservano, tentano, si accontentano, si compiacciono e poi soccombono. Uomini smargiassi che imprecano, mostrano i muscoli, ostentano sicurezza e poi si accartocciano su se stessi. Donne e uomini che si cercano e non si afferrano mai, prigionieri di una giostra della rabbia che gira gira e ancora gira, in un perimetro dove la vittima diventa l’aguzzino che scatena la furia del carnefice, alimentando frustrazioni e debolezze.

Una scelta ardua quella di addentrarsi nelle fitte tessiture dei rapporti di coppia, così delicate, così precarie, così malate. Molto meglio andare a giocare nella buca cacata di Karol, dove non c’è carnalità e tutto è più facile, almeno in apparenza.

Due stili recitativi agli antipodi marcano la caratterizzazione dei protagonisti: misurata e intimistica Sabrina Dodaro, esplosivo e istrionico Tony Allotta, che abita il palcoscenico con lo stesso vigore con cui Protazek difende il sacrosanto spazio della propria buca. Entrambi si avvalgono di una presenza vocale importante, a dispetto della non propriamente ortodossa insonorizzazione del teatro ospitante!

Una parabola al fiele è ciò che rimane alla fine di Buca di sabbia: le interazioni umane passano obbligatoriamente per la sofferenza, nell’incapacità di non ferirsi reciprocamente. Un diktat al quale non ci si può (e non ci si deve?) sottrarre.
 
 
Pamela Del Grosso
23 novembre 2013

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