Un doppio specchio, questo è Buca di sabbia di Micha Walczak, andato in scena al Teatro dei Conciatori con la regia di Gabriele Linari. La storia dell’incomunicabilità della coppia,
della quasi impossibile interazione fra uomo e donna, fra il prototipo del
maschio alfa e della femmina che tutto sopporta e tutto contiene. Un
argomento trito e ritrito, vecchio come il mondo, se non fosse che la
trasposizione scenica di Linari conferisce al tema un sapore assai più amaro di
quanto, in realtà, ci si aspetti. E allora i sensi si destano e l’attenzione si
acutizza, come nella migliore tradizione di un voyeurismo tutto teatrale.
Varsavia, estate, c’è caldo; in una buca di sabbia giocano due
bambini, Protazek e Mika. Poco lontano da lì, in un’altra buca
dove però cacano i cani, gioca Karol.
Karol in scena non c’è, non esiste, è solo menzionato; ci sono invece Mika e
Protazek, Sabrina Dodaro e Tony Allotta, protagonisti indiscussi
di una tragedia banale e disgraziata, così fatalmente prossima a ogni spettatore
presente in sala da sembrare quasi una gigante seduta di psicoterapia, dove il
trasferimento dei ruoli a carico degli attori è unicamente funzionale al
messaggio da veicolare.
Protazek vuol giocare da solo, il suo micromondo interrato racchiude
tutto ciò che gli occorre per essere felice:
soldatini, macchinette, un lombrico morto, un pacchetto di sigarette
vuoto. Tony Allotta, incarnando sulla scena un bambino, non risulta mai
parodistico. Il risultato è, piuttosto, un attore che si diverte moltissimo, che tiene
le fila del proprio personaggio destreggiandosi
in una continua tensione fra ilarità e umorismo crudele.
Non devi superare la riga: io
gioco da solo. Protazek lo ribadisce
e lo sottolinea ai danni della povera Mika che si appropinqua ad entrare
nell’insolita stanza dei giochi, vocetta stridula, atteggiamento lezioso e una
bambola di pezza attaccata al collo, gagliardetto di una beata infanzia.
Ancora una volta i drammi irrisolti della vita vera varcano le porte
del teatro, facendo bella mostra di tutta la loro forza, di tutta la loro
energia catastrofica. Uomini e donne che non riescono neanche a toccarsi, un
flusso di parole che arriva disarticolato, messaggi distorti e contraddittori,
come in preda a un eterno smottamento ormonale, una empia adolescenza che non
si esaurisce con la maturità anagrafica e nella quale si rimane incastrati per
l’eternità. Adulti rappresentati nelle feroci dinamiche dei bambini, bambini
che trovano il proprio contraltare nelle azioni proiettate sui giocattoli: è
questo il doppio specchio che Buca di
sabbia incarna, constatando la realtà senza nessuna concessione pietosa.
Donne che osservano, tentano, si accontentano, si compiacciono e poi
soccombono. Uomini smargiassi che imprecano, mostrano i muscoli, ostentano
sicurezza e poi si accartocciano su se stessi. Donne e uomini che si cercano e
non si afferrano mai, prigionieri di una giostra della rabbia che gira gira e
ancora gira, in un perimetro dove la vittima diventa l’aguzzino che scatena la
furia del carnefice, alimentando frustrazioni e debolezze.
Una scelta ardua quella di addentrarsi nelle fitte tessiture dei
rapporti di coppia, così delicate, così precarie, così malate. Molto meglio
andare a giocare nella buca cacata di
Karol, dove non c’è carnalità e tutto è più facile, almeno in apparenza.
Due stili recitativi agli antipodi marcano la caratterizzazione dei
protagonisti: misurata e intimistica Sabrina Dodaro, esplosivo e istrionico
Tony Allotta, che abita il palcoscenico con lo stesso vigore con cui Protazek
difende il sacrosanto spazio della propria buca. Entrambi si avvalgono di una
presenza vocale importante, a dispetto della non propriamente ortodossa
insonorizzazione del teatro ospitante!
Una parabola al fiele è ciò che rimane alla fine di Buca di sabbia: le interazioni umane
passano obbligatoriamente per la sofferenza, nell’incapacità di non ferirsi
reciprocamente. Un diktat al quale non ci si può (e non ci si deve?) sottrarre.
Pamela Del Grosso
23 novembre 2013
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