Una donna
innanzitutto. Poi un’attrice, una performer in perpetua evoluzione, poliedrica
e spendibile in contesti e palcoscenici molteplici eppur capace di rendere
sempre e comunque visibile quel fil rouge che dà forma e senso di continuità al proprio
lavoro. Ė Elvira Frosini, artista romana perennemente impegnata
nell’opera del cercare, con l’ossessione di fendere la superficie delle cose
andando al di là della convenzione, del sentimentalismo, del politicamente
corretto.
L'ultimo
progetto/esperimento, Condizione#1, Elvira Frosini lo ha
proposto domenica 12 Maggio, durante la
serata conclusiva del festival Centrale Preneste inFest.
Un lavoro breve, uno studio appunto. Due donne in scena e in
sottofondo un rumore lontano di elicotteri, una trasmissione radio che potrebbe
essere un comunicato di guerra, poi degli spari.
Angela D’Alessandro ed Elvira
Frosini usano la grammatica del teatrodanza, il teatro “che abortisce la
parola” ma che, forse più di tante forbite drammaturgie dialogate, è capace
di mettere lo spettatore con le spalle al muro, condannandolo alla disperata
ricerca di un significato.
Le due attrici sperimentano equilibri acrobatici, risultano
credibili rispetto a ciò che fanno ma non rispetto a ciò che raccontano, un
messaggio che rimane custodito e imploso.
Mostrano il proprio corpo in una nudità che non è esibizione ma
ostentata scarificazione e lottano per la conquista di un’idea, La Patria,
tutta concentrata in una bandiera che porta i colori dell’Italia.
Dalla cripticità
quasi surreale di Condizione#1 Elvira Frosini passa ad una esteriorità tracciata a tinte
fortissime, un lavoro in cui accentra su di sé quasi tutte le maestranze: la drammaturgia,
la regia, l’interpretazione.
Trattasi di Digerseltz,
andato in scena al Teatro dell’Orologio dal 10 al 19 Maggio, dove
una Elvira Frosini stile anni '70 entra ed esce dal proprio personaggio,
vestendo i panni ora di una presentatrice televisiva, ora di una cantante sulla
falsariga di Nina Hagen, ora della tormentata protagonista, che si
barcamena fra l’orrore del quotidiano e la fissazione per il proprio frigorifero.
Celebra un mondo macabro, tutto pervaso dalla mania del cibarsi,
dell’ingurgitare. Un nutrimento che non è più tale da tanto, troppo tempo; un
atto concreto e simbolico, quello del mangiare, ormai ridotto alla psicastenia
dei rapporti umani malati, della distorta percezione del sé.
La Frosini porta in scena un misticismo blasfemo, di cui si
serve per smascherare l’ipocrisia delle convenzioni; “santo frigo e santa
tele, riempitori dell’anima mia”, invoca l’artista romana mentre si
trasforma in una Madonna isterica che mangia e sputa popcorn, in quel
micromondo rappresentato dall’adunanza attorno alla tavola, alla mensa, al
desco del dolce desinare.
Una
donna che porta in scena una nevrosi è quasi sempre un bel vedere.
La
nevrosi portata in scena da una donna quasi sempre funziona.
Ed Elvira Frosini ha funzionato: hanno funzionato le sue
dicotomie, la sua voce, così particolareggiata e a tratti esaltata da una dizione
volutamente sporca. Ha funzionato quel finto disordine del voler dire tutto e a
tutti i costi; la palesata alternanza tra la Frosini attrice e la Frosini
autrice.
L’artista romana ha esteso l’indagine sull’isteria ad
un’interrogazione assai più lasca, avventurandosi nel ginepraio delle dinamiche
del cibo, oltre il significato del cibo stesso.
Si congeda, in ultimo, senza una
soluzione, nell’ansia flebile di un ennesimo pasto da consumare o dal quale
lasciarsi ingoiare.
A noi la scelta.
Pamela Del Grosso
Teatro dell'Orologio, Roma
19 maggio 2013
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