martedì 25 novembre 2014

Riccicapricci!


La poliedrica personalità di Federica Gumina
 
 

Il battesimo del fuoco Federica Gumina ha scelto di farlo presso il Teatro Manhattan, minuscolo salottino retrò incastonato fra i vicoli del quartiere Monti a Roma. Pochi posti e spazio gremito per la prima rappresentazione teatrale di Riccicapricci! con la regia di Paolo Orlandelli. Un buio luce ed eccola apparire in scena, occhioni sgranati, una montagna di riccioli neri e un orsacchiotto fra le mani: è una bambina che parla con la sua mamma. Fa domande semplici, esige risposte agli epocali quesiti dei piccoli, quel tipo di interrogazioni che il mondo dei grandi, spesso impreparato e disattento, liquida sommariamente.

La cifra stilistica che Federica Gumina, autrice e interprete del testo, ha utilizzato per l’intera rappresentazione è stata la doppia lettura della realtà: indagare l’ovvio esasperandolo in chiave comica. Un canovaccio perfettamente strutturato con tutti i crismi del teatro di rivista di altri tempi.

Il cruccio della bambina è tutto nei suoi capelli, tanti, gonfi, crespi. Troppo ingombranti, talmente ingombranti da impedire la chiusura del cofano della macchina. Le risposte della mamma, voce fuori campo dell’attrice stessa, sono vaghe e vagamente rassicuranti: figurarsi se i capelli sono un problema! E a questa età poi! È la storia del fardello di insicurezze che si cominciano ad affastellare in noi fin da piccoli, quando le sproporzionate dimensioni della realtà rendono il confronto con il mondo faticoso, spiacevole, buffo. Una piccola tragicommedia.

Federica Gumina sfoggia eccezionali doti di trasformismo passando da un personaggio all’altro. Segue il filo rosso della sua personalissima indagine all’interno di una illogica quotidianità che deve necessariamente passare per normalità, complici i tempi, i ritmi, il retaggio culturale imposto da modelli errati ed esagerati, talmente surreali da divenire macchiette. E l’attrice ci gioca perché conosce la materia a menadito e azzarda riletture canzonatorie, divertendo e divertendosi, con acume e perspicacia. I cambi di scena avvengono in luce; la solista-trasformista non perde mai di vista il pubblico, lo catalizza con una mimica facciale pregna di gigioneria e ammiccamenti che sortiscono l’effetto sperato.

Le parrucche sono il tratto distintivo di ogni differente personaggio. Federica ne indossa una rossa e diviene la donnina del prurito, una poveretta che si gratta senza sosta mentre racconta la propria storia, una concatenazione di sfortunati eventi costellati da un marito fedigrafo, un frigorifero vuoto e una corsa in ospedale. E anche qui una domanda epocale: incapaci di reagire ai soprusi della vita, deleghiamo al nostro corpo il compito di “parlare”, fosse anche per mezzo di un pizzicore?

Una parrucca bionda trasforma l’attrice prima nella Dottoressa Lina Penice, ammiccante, eccessiva, un esilarante e dichiarato stereotipo, un involontario omaggio alla Edwige Fenech della commedia sexy. Poi il registro cambia e irrompe sulla scena un’estemporanea insegnante di danza, un mix di cafonaggine e argomentazioni spicce rese da un colorito dialetto romano che l’attrice riesce a padroneggiare senza mai scivolare nell’esagerazione, pur sollevando grande ilarità e apprezzamento nel pubblico. Perché, se è vero che quotidianamente capita di imbattersi in persone che improvvisano un mestiere, raramente capiterà di imbattersi ancora in una insegnante che educa le piccole allieve al grand jeté come se saltassero una merda di cane!

Un caschetto di capelli bianchi trasformano Federica Gumina in una vecchietta sprint, che armeggia sulla scena con un sacchetto di arance e si chiede come sia possibile condannare un ragazzino di 54 anni, quel suo caro figliuolo che senza intenzioni malvagie ha svaligiato una banca. Che mondo!

Chiude la saga la bambina riccia di inizio spettacolo; ormai adulta e libera di poter disporre della propria chioma, si rende conto che lisciarsi i capelli per uniformarsi al mondo è stato un grave errore. Che l’essere al di fuori del coro non è necessariamente un male; è altresì un valore aggiunto per coscienze sopraffini.

Uno spettacolo denso di testo e rimandi interpretativi, sempre godibile e mai prolisso. All’autrice-interprete il merito di aver saputo tener le fila di tante sfaccettate personalità, con garbo, maestria e perfetta presenza scenica.

 

Pamela Del Grosso
28 giugno 2013

 

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