giovedì 20 novembre 2014

Duramadre


Una fisicità possente quella di Licia Lanera, prestata ai panni della Madre, della Duramadre; Fibre Parallele firma un altro successo di pubblico e critica e si cimenta nel racconto di un micromondo atavico, il matriarcato della madre padrona.
 
 

Una scena siderale, dall'alto della sua macchina da cucito Duramadre tiranneggia la sua triste corte ,tre figli maschi nudi e devoti, bramosi e curiosi di vita ma perennemente castrati al piacere e al calore; Duramadre ha abortito la propria femminilità per volontà o costrinzione, l'ha rinchiusa in una gabbia insieme al quarto elemento della sua sciagurata prole, una figlia femmina prigioniera.

Forte  e voluto l’incessante richiamo a quel Sud dell’Italia che partorisce certe madri granitiche; forte nel colore asprigno del dialetto, forte nelle tinte scure degli abiti che la Madre veste e cuce, forte nel rumore del vento che sembra insinuarsi sulla scena attraverso certe imposte chiuse malamente, come davvero accade di sentire in certi pomeriggi d’estate, in quella terra di Puglia nel Sud del Sud dei Santi.

Il testo di Riccardo Spagnulo si inerpica su per le impervie vie di un dialetto orecchiabile e a tratti inventato; il dialetto sporca e da forma alle parole della Madre, fino a rendere la sensazione che quella sia l'unica lingua a lei possibile, con quell'incedere cantilenante, duro e sgraziato.

L'ultima fatica di Fibre Parallele arriva come una caleidoscopica celebrazione dell'universo donna:  la femminilità bistrattata, mortificata, resa crudele e dura come pietra, costretta a passare per le forche caudine della sofferenza che trasforma e trasfigura, capace di rendere anche il più vulnerabile degli esseri umani una belva sterile, una Duramadre.

E’ questo un lavoro poliedrico che si presta a molteplici interpretazioni, tutte plausibili, toccando certi nervi scoperti dell’abisso umano che spesso si fa fatica ad indagare, tanto nella realtà quanto sulla scena: il perché di certe personalità deviate, il perché dei rapporti malati, della morbosità dei legami di sangue, dell’amore materno che si incrina e diviene catena.

Nulla sembra essere stato affidato al caso della creazione, ogni incedere scenico appare frutto di una ricerca minuziosa, una sapiente commistione di suggestioni  che rimanda alle gigantesche figure di Bernarda Alba e della brechtiana Madre Courage, nonostante l’intento della prima ispirazione, come dichiara l’autore, affondi le sue radici ne La ginestra di Giacomo Leopardi. Intenzione difficilmente rintracciabile, se non del tutto sublimata.

 

Un finale troppo lirico annuncia che la speranza di assurgere a nuova vita esiste anche tra le pareti asfittiche di una casa prigione; rimane però da capire come l’abusata progenie affronterà il mondo al di là delle mura. Qualcosa, forse, ancor più crudele della Duramadre.
 
Pamela Del Grosso
Teatro Palladium, Roma
21 marzo 2013

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