martedì 25 novembre 2014

Il Protocollo


L'esilio della parola
 
Ridere degli altri con incommensurabile leggerezza è ciò che maggiormente rende diversa la sensazione di essere puro e semplice spettatore dalla sensazione di appartenenza. Quando poi invece capita che il racconto tocchi corde che sentiamo appartenerci, allora il sorriso c’è, ma è stentato, è teso. Imploso. Ridere di gusto quindi, ma senza la leggerezza del distacco.

 

Potrebbe essere questa una sintesi a proposito de Il protocollo di Igor Grcko, andato in scena su uno dei tre palchi arrampicati all’interno di Villa Mercede, storico parco del quartiere San Lorenzo, nell’ambito del Roma Fringe Festival 2013. Quattro attrici in scena accolgono lo spettatore nello stesso identico modo in cui lo congederanno: sedute, ancorate ognuna al proprio rigoroso posto, gagliardetto di un’esplicita simbologia che scopriremo soltanto a spettacolo dichiarato, quando sarà ormai evidente che non una sola parola verrà pronunciata. Eppure di cose ne verranno dette tante. Sono i corpi a parlare, la musica, i gesti, la mimica facciale, gli oggetti. Quattro donne raccontano un’intera esistenza, dalla nascita alla morte, evidenziandone ogni passaggio senza risparmiare nulla: dalle fasi più grottesche, a quelle più esasperanti e comiche, passando per l’amaro dei momenti bui, quelli che, come appunto da protocollo, segnano in maniera indelebile il cammino di ogni essere umano.

Antonin Artaud parlerebbe di “trionfo della pura messa in scena”: nulla da cercare oltre, solo uno specchio in cui mestamente riflettersi. Un palcoscenico dove l’oblio classico della scena viene sovvertito da una staticità densa di movimento. Igor Grcko si dimostra un regista che non va alla ricerca di un modo altro per tradurre le parole: semplicemente, non avverte il mordente di un testo. Traspone piuttosto la propria idea di fondo in gesto, svincolandosi in un certo qual modo dall’impianto tradizionale del teatro occidentale e offrendo allo spettatore l’antecedenza della produzione teatrale, quel substrato a cui generalmente si fa seguire la parola scritta e parlata, esistente o inedita.

Igor Grcko ha avuto la perversione di far luce laddove, per ipocrisia o per puro istinto di autoconservazione, si tende a non guardare: i successi della vita a cui immediatamente fanno seguito i fallimenti, le porte chiuse in faccia, le speranze disilluse, le scelte obbligate. Sono gli affanni, il rigore, l’ansia, l’euforia, la rabbia, la stanchezza, umori e stati d’animo che popolano la vita di ognuno, costretto, suo malgrado, a fare i conti con una quotidianità che il regista preannuncia come inesorabile, qualcosa da cui difficilmente ci si potrà esimere. Perché, affermando paradossalmente il contrario, Grcko asserisce che tutta la vita dell’essere umano è volta ad uscire dai binari del protocollo, a differenziarsi da ciò che le quattro attrici mostrano in scena, con un retrogusto di triste rassegnazione verso l’ineluttabilità della sorte. Nulla di mistico o trascendentale; piuttosto un canone ancestralmente radicato, una certezza che, in maniera più o meno latente, risiede in ognuno.

Il regista croato non racconta una storia meravigliosa, anche se il ritmo sostenuto e l’andatura brillante della partitura fanno esplodere più di una risata perché, come è noto, spesso l’ironia è vettore di verità scomode. La trama alla base della rappresentazione non è ancorata a un canovaccio bensì alla vita, una sorta di neorealismo teatrale che introduce all’interno del teatro una nozione nuova di spazio, fisico e mentale. Se è vero che, nonostante tutto, Igor Grcko non va a sondare quel sommerso teatrale fortemente anelato da Artaud, in qualche modo, comunque, propone un punto di vista originale e inaspettato che sorprende il pubblico delle poltrone rosse, e che ben si sposa con la sperimentazione off del Fringe Festival.


Pamela Del Grosso
18 luglio 2013

con (in ordine scenico)
Francesca Renzi
Alessandra Coronica
Isabel Zanni
Emanuela Ventura

regia Igor Grcko
una produzione Format4
www.formazioneattori.it

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