L'esilio
della parola
Ridere degli altri con incommensurabile leggerezza è ciò che
maggiormente rende diversa la sensazione di essere puro e semplice spettatore
dalla sensazione di appartenenza. Quando poi invece capita che il racconto tocchi
corde che sentiamo appartenerci, allora il sorriso c’è, ma è stentato, è teso.
Imploso. Ridere di gusto quindi, ma senza la leggerezza del distacco.
Potrebbe essere questa una sintesi a proposito de Il protocollo
di Igor Grcko, andato in scena su uno dei tre palchi arrampicati
all’interno di Villa Mercede, storico parco del quartiere San Lorenzo,
nell’ambito del Roma Fringe Festival 2013. Quattro attrici in scena
accolgono lo spettatore nello stesso identico modo in cui lo congederanno: sedute,
ancorate ognuna al proprio rigoroso posto, gagliardetto di un’esplicita
simbologia che scopriremo soltanto a spettacolo dichiarato, quando sarà ormai
evidente che non una sola parola verrà pronunciata. Eppure di cose ne verranno
dette tante. Sono i corpi a parlare, la musica, i gesti, la mimica facciale,
gli oggetti. Quattro donne raccontano un’intera esistenza, dalla nascita alla
morte, evidenziandone ogni passaggio senza risparmiare nulla: dalle fasi più
grottesche, a quelle più esasperanti e comiche, passando per l’amaro dei
momenti bui, quelli che, come appunto da protocollo, segnano in maniera
indelebile il cammino di ogni essere umano.
Antonin Artaud parlerebbe di “trionfo della pura messa in
scena”: nulla da cercare oltre, solo uno specchio in cui mestamente
riflettersi. Un palcoscenico dove l’oblio classico della scena viene sovvertito
da una staticità densa di movimento. Igor Grcko si dimostra un regista che non
va alla ricerca di un modo altro per tradurre le parole: semplicemente, non
avverte il mordente di un testo. Traspone piuttosto la propria idea di fondo in
gesto, svincolandosi in un certo qual modo dall’impianto tradizionale del
teatro occidentale e offrendo allo spettatore l’antecedenza della produzione
teatrale, quel substrato a cui generalmente si fa seguire la parola scritta e
parlata, esistente o inedita.
Igor Grcko ha avuto la perversione di far luce laddove, per ipocrisia
o per puro istinto di autoconservazione, si tende a non guardare: i successi
della vita a cui immediatamente fanno seguito i fallimenti, le porte chiuse in
faccia, le speranze disilluse, le scelte obbligate. Sono gli affanni, il
rigore, l’ansia, l’euforia, la rabbia, la stanchezza, umori e stati d’animo che
popolano la vita di ognuno, costretto, suo malgrado, a fare i conti con una
quotidianità che il regista preannuncia come inesorabile, qualcosa da cui
difficilmente ci si potrà esimere. Perché, affermando paradossalmente il
contrario, Grcko asserisce che tutta la vita dell’essere umano è volta ad
uscire dai binari del protocollo, a differenziarsi da ciò che le quattro
attrici mostrano in scena, con un retrogusto di triste rassegnazione verso
l’ineluttabilità della sorte. Nulla di mistico o trascendentale; piuttosto un
canone ancestralmente radicato, una certezza che, in maniera più o meno
latente, risiede in ognuno.
Il regista croato non racconta
una storia meravigliosa, anche se il ritmo sostenuto e l’andatura brillante
della partitura fanno esplodere più di una risata perché, come è noto, spesso
l’ironia è vettore di verità scomode. La trama alla base della rappresentazione
non è ancorata a un canovaccio bensì alla vita, una sorta di neorealismo
teatrale che introduce all’interno del teatro una nozione nuova di spazio,
fisico e mentale. Se è vero che, nonostante tutto, Igor Grcko non va a sondare
quel sommerso teatrale fortemente anelato da Artaud, in qualche modo, comunque,
propone un punto di vista originale e inaspettato che sorprende il pubblico
delle poltrone rosse, e che ben si sposa con la sperimentazione off del
Fringe Festival.
Pamela Del Grosso
18 luglio 2013
con (in ordine scenico)
Francesca RenziAlessandra Coronica
Isabel Zanni
Emanuela Ventura
regia Igor Grcko
una produzione Format4
www.formazioneattori.it
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