giovedì 20 novembre 2014

Reality, Janina Turek in terza persona

Janina Turek, la donna che spiava se stessa, all’inizio dello spettacolo, sul palco, non c’è.
 
 
 
 
 
Non ci sono i suoi  748 quaderni, non c’è la sua ossessione, non c’è Cracovia, non c’è la densità della sua vicenda; ci sono invece due artisti che giocano a morire, un uomo ed una donna che hanno scelto una chiave di lettura che sorprende per raccontare ciò che di fatto non tradurranno, mantenendosi fedeli tanto a Reality, al testo di Szczygiel quanto alle intenzioni di Janina Turek. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si avventurano nell’eterno dilemma di ciò che possa considerarsi vero e cosa no, del pericolo sempre in agguato dell’esteriorità, della ricerca affannosa della naturalezza e, come i grandi Maestri della Ricerca Teatrale del Novecento, tentano di risalire all’origine della credibilità; lo fanno sperimentandosi in un metateatro senza retorica, tra serio e faceto. Janina Turek muore per strada colpita da infarto dopo aver passato un’intera esistenza ad annotare analiticamente la propria quotidianità, parlando di se stessa in terza persona, con quell’algida distanza che certe forme grammaticali sanno perfettamente rendere; mai un commento, mai una considerazione personale, mai la traccia di un’emozione. I due attori si interrogano reciprocamente rispetto alla qualità della caduta a terra, vogliono immortalare Janina mentre muore; argomentano a proposito della peculiarità del tonfo, dell’espressione del volto nel momento in cui il corpo giace sul marciapiede; agiscono con fare dissacratorio e clownesco, assumendosi il rischio e la responsabilità di trattare la morte con tanta leggerezza.

Non è che uno dimostra che sta per morire..muore. Le parole della Deflorian sanciscono un cambio di registro nella vicenda; la scena si sposta dal centro verso destra e poi verso sinistra, dove gli oggetti che raccontano Janina Turek parlano più di quanto saprebbe fare una magistrale drammaturgia: c’è il tavolo della cucina che ha sorretto tazze di caffè nero e gomiti, ci sono le sedie, le stoviglie dei pasti, c’è lo zerbino del portone nella via Parkova.

Durante un’intervista rilasciata tre anni fa in occasione della prima di Reality, Daria Deflorian disse che l’urgenza più grande nella creazione di questo lavoro era stata la necessità di trattenere il pensiero, il bisogno di esposizione a cui siamo non solo abituati ma condannati; questa urgenza si respira effettivamente per 50 minuti, un tempo relativamente breve dove non viene prostituita nessuna spettacolarizzazione, dove il ricordo di tanta sbalorditiva normalità viene celebrato con garbo e inconfutabile talento.
 
 
 
 
Pamela Del Grosso
 
Teatro Palladium, Roma
7 aprile 2013

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