Anarchia scientifica nei
Giardini della Filarmonica
Il copione è sempre lo stesso: una scena
senza scenografia abitata da installazioni; un palco senza attore dove a
muoversi, onnipotente, è il più grande
performer vivente; una serata con una dose di aspettative inversamente
proporzionali. Palpabili quelle del pubblico, copioso come di consueto
nonostante una Roma che, graziata dagli esodi estivi, offre una godibilità
tristemente fittizia; assenti quelle del protagonista assoluto, Antonio Rezza, che nulla si aspetta
dalla platea se non ciò che meticolosamente e scientificamente calcola durante
la gestazione dei suoi lavori, i lunghi mesi in cui vive gli habitat della
portentosa Flavia Mastrella, l’altra
metà del sodalizio artistico. La cornice dei Giardini della Filarmonica delimita i confini dell’ennesima serata sperimentale a cui la coppia da
vita, portando sulla scena Doppia
identità elevata al superficiale, un collage di estratti di spettacoli
precedenti, una ricerca minuziosa e acerrima che porta in superficie la
quotidianità e non i suoi orrori, perché le due entità non possono essere
scisse. Sul palco anche Ivan Bellavista,
presenza ormai pressoché costante nelle creazioni del celebre duo; scientifico
anche lui, esatto nelle posizioni volutamente marginali, nelle azioni di
servizio che, a ben guardare, costituiscono l’ossatura dell’evento tanto quanto
le funambolerie fisiche e dialogiche dell’accentratore Rezza. Colpi precisi,
sferzati senza possibilità di replica, una variante neanche lontanamente
contemplata; azioni mirate, numeriche, bombardamenti perpetrati attraverso una sequela costante di input
impietosi a cui fanno seguito le risa e gli applausi degli spettatori,
divertiti come se davvero capissero ciò
che sta accadendo. Una reazione paradossale se si pensa che oggetto di
questa deridente e inconfutabile analisi sono le bassezze e le meschinità delle
quali siamo quotidianamente artefici e prigionieri, tanto quanto l’impiegato
della piccola torre gemella, uno dei numerosi personaggi claustrofobici che,
estemporaneamente, abitano il corpo di Antonio Rezza.
Manipolatore d’eccellenza, cerca e trova
intelligenti pertugi attraverso i quali fare bella mostra della bonaria
corruttibilità umana; mima una doccia, canticchia e fischietta mentre
impunemente si strofina le parti intime, simulando una cabarettistica
insaponatura degna di un Karl Valentin
d’altri tempi. Il rigoroso meccanismo rezziano prevede, come sempre, un
divertito sdegno della platea che, dimentica di quali reconditi anfratti
abbiano perlustrato quelle stesse mani poco prima, si sollazza nella profusione
di carezze che Antonio Rezza dispensa agli sventurati spettatori delle prime
file. Umori corporei quindi, a tramortire il tabù sociale del contatto, della
vicinanza, del contagio, e a rimarcare il concetto dell’incurabile labilità
umana, così tristemente incline a se stessa.
Sempre altisonante l’accusa mossa alla
Chiesa, ai preti e a tutto l’organigramma ecclesiastico, quell’insieme che
Rezza non riconosce come istituzione bensì come associazione a delinquere,
fondata, tra le altre cose, su una singolare commistione tra indulgenze e
pedofilia. E ancora muove dal sacro, inscenando, con Ivan Bellavista, il
siparietto di un Cristo e una Madonna che si litigano la scena ne La Pietà del Mantegna. Rimandi palesemente rintracciabili si alternano a pure
acrobazie del genio riferibili unicamente a se stesse, frutto di un gesto vivo
e necessario, non subordinato alla parola, volendo rintracciare una gerarchia
nell’atto della creazione. Tacciato di individualismo Antonio Rezza ne dà
sempre puntuale conferma, elogiando il lato positivo (l’unico a suo avviso
possibile) dell’autoreferenzialità dell’arte.
La doppia identità annunciata nel titolo
si ritrova nella differente natura tra cittadino
e cittadini, tra contadino e
contadini, tra Kunta Kinte e Kunta Kinti; Rezza, con l’abituale
perizia chirurgica che non sfocia mai in impeto lirico, disegna i tratti del
singolo in rapporto con se stesso e del singolo inserito nella massa. Un’amena
rete di clientelismo che, in un gioco di paradossi, sembrerebbe enunciare
l’esatto contrario del Documento
programmatico della RAF di Ulrike
Meinhof.
Una doppia identità che ancora si risolve
nella sconsideratezza della maternità. Antonio Rezza, fasciato in una guaina
fuxia, che gli conferisce sinistra sinuosità, presta corpo e voce a una femmina
fattrice che fantastica sul destino della prole ancora in grembo; un’esistenza
venduta, viziosa e depravata ancor prima di assurgere a indegna dignità di
vita.
Non è un teatro primitivo quello della
coppia Rezza-Mastrella, perché per essere tale dovrebbe rifarsi
all’origine di qualcosa. È un teatro estremamente contemporaneo, figlio del
fecondo decadimento di questi tempi alterati. Non significa, come sosteneva Clive Barker a proposito dei
teatri-laboratorio, galleggiare in mezzo
all’oceano, aggrappati ad un isoletta di spazzatura, fra puzza e merda.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella su quella malsana isoletta di rifiuti ci
stazionano da sempre; si sporcano per intero ed esperiscono, compiaciuti, il
proprio disagio.
Pamela Del Grosso
9 agosto 2013
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
Estratti in tema tratti dalle opere Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28
Garofano verde 2010
habitat di Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
consulente tecnico Mattia Vigo
Estratti in tema tratti dalle opere Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28
Garofano verde 2010
habitat di Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
consulente tecnico Mattia Vigo
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