martedì 25 novembre 2014

Doppia identità elevata al superficiale

Anarchia scientifica nei Giardini della Filarmonica
 
 
Il copione è sempre lo stesso: una scena senza scenografia abitata da installazioni; un palco senza attore dove a muoversi, onnipotente, è il più grande performer vivente; una serata con una dose di aspettative inversamente proporzionali. Palpabili quelle del pubblico, copioso come di consueto nonostante una Roma che, graziata dagli esodi estivi, offre una godibilità tristemente fittizia; assenti quelle del protagonista assoluto, Antonio Rezza, che nulla si aspetta dalla platea se non ciò che meticolosamente e scientificamente calcola durante la gestazione dei suoi lavori, i lunghi mesi in cui vive gli habitat della portentosa Flavia Mastrella, l’altra metà del sodalizio artistico. La cornice dei Giardini della Filarmonica delimita i confini dell’ennesima serata sperimentale a cui la coppia da vita, portando sulla scena Doppia identità elevata al superficiale, un collage di estratti di spettacoli precedenti, una ricerca minuziosa e acerrima che porta in superficie la quotidianità e non i suoi orrori, perché le due entità non possono essere scisse. Sul palco anche Ivan Bellavista, presenza ormai pressoché costante nelle creazioni del celebre duo; scientifico anche lui, esatto nelle posizioni volutamente marginali, nelle azioni di servizio che, a ben guardare, costituiscono l’ossatura dell’evento tanto quanto le funambolerie fisiche e dialogiche dell’accentratore Rezza. Colpi precisi, sferzati senza possibilità di replica, una variante neanche lontanamente contemplata; azioni mirate, numeriche, bombardamenti perpetrati  attraverso una sequela costante di input impietosi a cui fanno seguito le risa e gli applausi degli spettatori, divertiti come se davvero capissero ciò che sta accadendo. Una reazione paradossale se si pensa che oggetto di questa deridente e inconfutabile analisi sono le bassezze e le meschinità delle quali siamo quotidianamente artefici e prigionieri, tanto quanto l’impiegato della piccola torre gemella, uno dei numerosi personaggi claustrofobici che, estemporaneamente, abitano il corpo di Antonio Rezza.

Manipolatore d’eccellenza, cerca e trova intelligenti pertugi attraverso i quali fare bella mostra della bonaria corruttibilità umana; mima una doccia, canticchia e fischietta mentre impunemente si strofina le parti intime, simulando una cabarettistica insaponatura degna di un Karl Valentin d’altri tempi. Il rigoroso meccanismo rezziano prevede, come sempre, un divertito sdegno della platea che, dimentica di quali reconditi anfratti abbiano perlustrato quelle stesse mani poco prima, si sollazza nella profusione di carezze che Antonio Rezza dispensa agli sventurati spettatori delle prime file. Umori corporei quindi, a tramortire il tabù sociale del contatto, della vicinanza, del contagio, e a rimarcare il concetto dell’incurabile labilità umana, così tristemente incline a se stessa.

Sempre altisonante l’accusa mossa alla Chiesa, ai preti e a tutto l’organigramma ecclesiastico, quell’insieme che Rezza non riconosce come istituzione bensì come associazione a delinquere, fondata, tra le altre cose, su una singolare commistione tra indulgenze e pedofilia. E ancora muove dal sacro, inscenando, con Ivan Bellavista, il siparietto di un Cristo e una Madonna che si litigano la scena ne La Pietà del Mantegna. Rimandi palesemente rintracciabili si alternano a pure acrobazie del genio riferibili unicamente a se stesse, frutto di un gesto vivo e necessario, non subordinato alla parola, volendo rintracciare una gerarchia nell’atto della creazione. Tacciato di individualismo Antonio Rezza ne dà sempre puntuale conferma, elogiando il lato positivo (l’unico a suo avviso possibile) dell’autoreferenzialità dell’arte.

La doppia identità annunciata nel titolo si ritrova nella differente natura tra cittadino e cittadini, tra contadino e contadini, tra Kunta Kinte e Kunta Kinti; Rezza, con l’abituale perizia chirurgica che non sfocia mai in impeto lirico, disegna i tratti del singolo in rapporto con se stesso e del singolo inserito nella massa. Un’amena rete di clientelismo che, in un gioco di paradossi, sembrerebbe enunciare l’esatto contrario del Documento programmatico della RAF di Ulrike Meinhof.

Una doppia identità che ancora si risolve nella sconsideratezza della maternità. Antonio Rezza, fasciato in una guaina fuxia, che gli conferisce sinistra sinuosità, presta corpo e voce a una femmina fattrice che fantastica sul destino della prole ancora in grembo; un’esistenza venduta, viziosa e depravata ancor prima di assurgere a indegna dignità di vita.

 

Non è un teatro primitivo quello della coppia Rezza-Mastrella, perché per essere tale dovrebbe rifarsi all’origine di qualcosa. È un teatro estremamente contemporaneo, figlio del fecondo decadimento di questi tempi alterati. Non significa, come sosteneva Clive Barker a proposito dei teatri-laboratorio, galleggiare in mezzo all’oceano, aggrappati ad un isoletta di spazzatura, fra puzza e merda. Antonio Rezza e Flavia Mastrella su quella malsana isoletta di rifiuti ci stazionano da sempre; si sporcano per intero ed esperiscono, compiaciuti, il proprio disagio.
 
 
Pamela Del Grosso
9 agosto 2013

 
RezzaMastrella – TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello – Fondazione Teatro Piemonte Europa
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
Estratti in tema tratti dalle opere Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28
Garofano verde 2010
habitat di Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
consulente tecnico Mattia Vigo

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