Del selvaggio dolore
di essere uomini
Qualcosa mi dice che lassù ad
attendermi possa esserci un sopravvissuto e tenace brandello del Living Theatre, una Judith Malina in gentile concessione alla plumbea provincia
torinese; la pioggia si rende artefice e complice di un’atmosfera sui generis,
sinistramente pregna di aspettativa. Non li ho mai visti dal vivo, i Ferocemadreguerra, quello che so me lo
hanno raccontato: una potenza scenica molto forte, urla viscerali, inusuale
prossimità rispetto al pubblico. Mi capita addirittura di perdermi nel bosco,
nel tentativo di raggiungere il luogo prestabilito, rispetto al quale le mie
certezze, sul fatto che possa esistere davvero, iniziano a vacillare; ma il
felice epilogo arriva, si staglia su un piccolo piazzale in pendenza, uno
sperone di roccia dove sorge la chiesa di
Santo Stefano, per l’occasione habitat in prestito alla compagnia
capitanata da Michele Di Mauro. Sono
direttamente loro ad accogliere gli spettatori, già personaggi con i vestiti di
scena addosso, un extraquotidiano guardaroba fatto di abiti da sera e scarpe da
ginnastica. Leopardate.
Del selvaggio dolore di essere uomini si apre con uno scambio di
battute fra attori e pubblico, un’insolita interazione che destabilizza già a
partire dai primi minuti; domande dirette, fredde, a bruciapelo, rispetto alle
quali, per inerzia, si fornisce solo la prima banale risposta che la
trasmissione di un elementare impulso cerebrale generale. A tutti una seconda possibilità o esiste davvero qualcuno che merita di
morire? - Nessuno merita di morire - proclama una spettatrice. E si
aprono le danze. Un incedere sincopato fatto di ritmi veloci, parole soffiate,
grida uterine, gesti sospesi rimasti a mezz’aria, emiparesi volutamente
iconoclastiche. Muovono da lo Stabat
mater furiosa di Jean Pierre Simeon
i Ferocemadreguerra, passando per Elsa
Morante, Antonin Artaud, Giovanni Testori, Shakespeare; approdano ad un testo inedito, il proprio, un inno
alla disillusione, con la ferocia tipica delle verità più scomode. Proclamano
una guerra culturale, chiedono alle coscienze di destarsi dal piacere che
provoca il vuoto del non-sapere;
anelano una seconda interpretazione della realtà, quella brutale, quella
autentica, l’unica possibile.
CANCELLARE_EFFETTO_DOLCEZZA è il leitmotiv che
accompagna il portentoso delirio lucido delle tre attrici, fisicità e
temperamenti a confronto così intimamente differenti tra loro, tre Moire che profetizzano l’inutilità
dell’accondiscendenza e si beffano degli stereotipi esasperandoli fino
all’inverosimile. La scena è reale tanto quanto l’accadimento che sta avendo
luogo, nella mistica cornice di una chiesa affrescata; cambiare d’abito,
indossare una parrucca, bere un sorso d’acqua, riprendere fiato, tutto avviene
in luce, un happening spasmodico all’insegna dell’imprevedibilità.
Michele Di Mauro assume
all’interno del componimento una funzione antesignana, continuamente dentro e fuori l’interpretazione di un ruolo che comunque non esiste. Provocatore, all’occorrenza moderatore, si muove abile fra le quinte, il pubblico e il componimento scenico, tenendo le fila di cotanta modernissima epopee.
La vita ti chiede, per amarti, di essere ferita. Vige l’assoluta necessità di superare i propri limiti, di fare ricorso ad un coraggio cattivo.
Un gioco continuo di rimandi, di
analogie, di congruenze mai casuali. Il quartetto si siede su una schiera di
sedie allineate; guarda oltre il pubblico, sta vedendo un film. Uno scambio di
battute lisce, dritte, a tutti e a nessuno; arrovellamenti della mente ad alta
voce, amare considerazione sulla condizione umana, sul baratro che attende,
famelico, coloro che si lasceranno convincere, tutti quelli che non rischiano
niente, che non guardano alla sofferenza come ad una possibilità di cambiamento
radicale. In sottofondo campeggia la più
celebre delle sodomie perpetrate nel cinema, Marlon Brando e Maria
Schneider riassumono la disperata sorte dell’uomo. L’equivalenza è sottile,
a tratti geniale, perfettamente calzante nella sua semplicità sillogica. E
ancora, la Febbre di Sarah Kane aleggia mentre una nenia di
“mi piace” si libra nell’aria, nelle parole di Francesca Brizzolata: mi
piace l’odore del mio sudore quando sono agitata. Una preghiera che suona
come una maledizione chiude lo spettacolo, nell’ardente, densissima
interpretazione di Francesca Bracchino.
Una giovane spettatrice piange accorata in seconda fila. Una breccia è stata
aperta. Missione compiuta.
A fine spettacolo i
Ferocemadreguerra mi concedono un po’ di tempo, mentre fuori la pioggia biblica
non accenna ad arrestarsi. Parlo con Carlotta
Viscovo; scopro, dietro ad una presenza scenica vorace e totalizzante, una
donna che ha voglia di raccontare una storia, la genesi di una storia, disposta
e disponibile a soddisfare qualche perché. Mi parla della scelta relativa al
tema della guerra, che trae origine dal conflitto in Libano riportato da
Simeon; da lì l’idea di creare un ponte fra il macello delle carni e il macello
dell’intelletto, che si può e si deve fermare attraverso l’avveduta cognizione
dei fatti. Mi sorprendo non poco nello scoprire che lo spettacolo che ho visto
stasera è stato un evento unico e irripetibile nel suo genere: Carlotta
racconta che ogni componente della compagnia conosce l’intero testo della
rappresentazione e che in scena non vige mai un vero e proprio accordo rispetto
al chi dice cosa e quando. L’intera struttura drammaturgica poggia su pochi
canoni fissi all’interno dei quali gli attori si muovono abilmente, funamboli
della parola oltre che dell’azione. Contemporanei quindi anche nella logistica:
se le possibilità non lo dovessero permettere, a muoversi per portare in giro
una replica potrebbe essere anche un solo attore. Un esperimento in continuo
divenire, una vera e propria fucina di senso.
È Michele Di Mauro a parlarmi, invece,
dell’importanza di azzerare la distanza fra attori e pubblico, una
contemporaneità che si rifà alle origini, un punto di vista spesso rinnegato e
in fondo poco comune perché giudicato troppo invasivo, una sorta di violenza d’essai alla quale non si è abituati e
rispetto alla quale ci si presta malvolentieri. Risulta piuttosto un
coinvolgimento fertile per quanti sono disposti ad abbassare qualche barriera,
a mettersi in discussione. Per tutti coloro disposti a reagire. - È un
teatro di nicchia -, continua Di Mauro, - perché comporta la
sovraesposizione tanto dello spettatore quanto dell’interprete che,
paradossalmente, preferisce spesso esporsi quel tanto che basta a non scoprirsi
totalmente. Come se, davvero, quello dell’attore fosse solo un mestiere.
Chiesa di Santo Stefano, Comune
di Chiaverano (TO)
Uno spettacolo di: G.U.P. Alcaro,
Francesca Bracchino, Francesca Brizzolara, Lucio Diana, Michele Di Mauro,
Carlotta Viscovo
Prodotto da: FMG in
collaborazione con Festival delle Colline Torinesi/Morenica_Cantiere
Canavesano/ Bottega CAP10100
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